L’obiettivo stavolta è più smaccato rispetto al 2006: provare a indirizzare le elezioni presidenziali. Lo prova la scritta finale che sostituisce The End, ovvero Now Vote, Ora vota. Niente di male, senonché Borat 2 (il cui titolo completo sarebbe Borat – Seguito di film cinema. Consegna di portentosa bustarella a regime americano per beneficio di fu gloriosa nazione di Kazakistan) è tutto ripiegato dentro quell’obiettivo, sacrifica tutto a quell’obiettivo, ripetendo le stesse cose fatte nel primo, esilarante film, solo aumentandole di proporzione.



Il personaggio del giornalista kazako deve tornare negli Usa per potersi salvare dall’esecuzione: lo scopo è quello di ingraziarsi il presidente Trump e il vice Pence attraverso una bustarella di tipo sessuale. Ovvero la figlia Tutar. Ma per poter entrare in contatto con la Casa Bianca dovrà inserirsi in quel mondo e nei loro costumi.



Diretto da Jason Woliner e scritto dal protagonista Sacha Baron Cohen (da poco visto ne Il processo ai Chicago 7) assieme a 9 gagmen e gagwomen, proprio come la stanza degli scrittori di uno show satirico, Borat 2 è un’indagine dell’elettorato trumpista e dell’umanità che lo compone messi alla berlina attraverso il consueto campionario di sessismo, razzismo e ottusità a oltranza che diventa specchio delle pulsioni (non più) nascoste di una fetta di americani.

Cohen assieme alla rivelazione Marija Bakalova scorrazza lungo quella che gli analisti del voto chiamano “America profonda”, tutti i suoi orrori che negli ultimi 4 anni – rispetto alla politica di Bush jr. attaccata nel primo film – sono diventati sempre più palesi, scoperti, e mostra un Paese che pare l’ampliamento su scala nazionale, ma forse anche intercontinentale, delle famiglie redneck di molti horror come Non aprite quella porta.



Questo seguito però non si limita a illuminare l’abisso di negazionisti, complottisti, fascisti di varia specie, ma rivendica la sua battaglia per cambiare le cose, se non proprio per aprire gli occhi degli americani: il personaggio di Tutar e il suo percorso di potenziamento sociale e culturale in chiave femminista vogliono agire sul presente e vogliono indicare vie di speranze rispetto al nichilismo co(s)mico del padre, inoltre tutto il sotto-testo pandemico sa di Instant movie.

A vedere l’andamento delle elezioni, Borat 2 è un semi-fallimento politico, essendo principalmente rivolto a chi già sostiene certe posizioni progressiste, liberal e anti-Trump e coagulando ancora di più il pensiero politico attorno agli opposti (e infatti, il Presidente ha cavalcato l’onda polemica dell’uscita del film su Prime Video). Ma forse, il film è anche un mezzo fallimento in senso cinematografico: parodiando lo stile Real Time (come il primo sfotteva Michael Moore), Cohen gioca col suo genio situazionista e cerca di sfruttare la demenza che lo circonda per creare paradossi comici, ma gli obiettivi della sua satira sono troppo scoperti, troppo facili da sfottere e così le intenzioni prevalgono sull’ispirazione, oltre a rendere sempre meno credibile il senso della candid camera.

Per dirla più semplice: gli oggetti del tiro a bersaglio di Cohen (esclusa la dolce sequenza con la sopravvissuta all’Olocausto) sono talmente parodie di loro stessi da rendere inefficace e superflua ogni satira. Il punto non è che si ride poco, e comunque molto meno di ogni altra sua prova (per esempio, su Sky si trova la geniale serie Who Is America?), ma che tutto ciò che cerca di dire o fare pare girare a vuoto, cercando l’arrivo della scintilla anziché far brillare incendi e poi godersene gli effetti, come aveva sempre fatto finora, quando non c’erano scopi prefissati da seguire.