Per ogni grande successo, l’estate cinematografica porta con sé almeno un grande flop. A fronte di Inside Out 2 (assolutamente sorprendente, in Italia insidia Tolo tolo di Checco Zalone) e Deadpool & Wolverine, ci si ritrova con un oggetto come Borderlands che aveva parecchie carte da potersi giocare e invece le spreca tutte: certo, non è all’altezza dell’Indiana Jones dell’anno scorso che fece perdere 150 milioni alla Disney, ma questo perché il film d’azione fantascientifica diretto da Eli Roth è costato molto meno (intorno ai 120 milioni di dollari, un terzo del film con Harrison Ford) ed era talmente sbagliato fin dall’inizio che non hanno investito affatto in marketing.
Il soggetto parte da una serie di videogiochi lanciata nel 2009, ambientati in un futuro imprecisato su un pianeta chiamato Pandora, che però non è la terra meravigliosa narrata da Avatar, ma una sorta di discarica spaziale. Qui, un ribelle (Kevin Hart) rapisce la figlia di un ricco industriale, il quale assume Lilith (Cate Blanchett) per ritrovarla; ma quando raggiungerà l’obiettivo scoprirà una realtà molto diversa da quella che pensava.
Scritto da Roth con Joe Crombie dopo diverse versioni e riscritture, girato durante il Covid, bloccato e ripreso con sequenze da rigirare a cui Roth non ha messo mano, più interessato a Thanksgiving, lasciando spazio al non accreditato Tim Miller – regista del primo Deadpool -, Borderlands è uno dei classici film che sembrava interessante quando è stato ideato, ossia troppi anni fa, come capita spesso nella Hollywood retta dalla finanza, che ha perso interesse e vigore durante il tempo, ma ormai ci erano stati spesi troppi soldi per lasciarlo stare e quindi ecco un film d’azione che vorrebbe guardare ai Guardiani della galassia, ma con estetica e volgarità da Suicide Squad o The Boys (la zona della città fatta di urina).
Alla resa dei conti, quello diretto da Roth, è un film di serie C, una sorta di finto blockbuster (in Usa lo chiamano mockbsuter, quello che sfrutta la somiglianza con altri film per acchiappare pubblico) dai costi gonfiati, che tradisce tanto la passione di Roth per i “materiali di scarto” filmico, da riutilizzare con sensibilità moderna, quanto la sua difficoltà a relazionarsi con un impianto produttivo da major (come aveva dimostrato ne Il mistero della casa del tempo, decisamente più fortunato e riuscito). Soprattutto, Borderlands è un film che non ha un’identità, un’unità di racconto, di produzione soprattutto, sembra un pastiche che di rado ha la consapevolezza del pastiche, che non ha l’ispirazione o il vigore per accontentare qualcuno, nemmeno gli amanti del brutto o del trash.
Un film di una pigrizia sconcertante, in particolare nel settore dell’azione e dell’immaginazione, che dovrebbe essere il suo punto di forza, che appare ancora meno riuscito di un copione pieno di situazioni col pilota automatico, che cerca l’ironia senza successo, ma intanto costringere gli attori a recitare come in una sitcom di 30 anni fa. Forse non è davvero colpa di nessuno se Borderlands pare un frutto malnato, sbagliato fin nelle basi, nemmeno di Roth a dirla tutta: è che a volte capita, un’opera in cui tutti gli incastri si sposano male, figlia di una congiuntura astrale sfavorevole, destinata a non piacere o interessare a nessuno, nemmeno ai bastian contrari che amano ciò che sollazza l’immondizia. Questo è uno di quei casi.
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