Sono passati 15 anni da quando, nel 2007, Boris irruppe nel panorama televisivo italiano per smontare pezzo dopo pezzo la serialità italiana, i meccanismi cialtroneschi che regolavano il mondo della fiction e che in un certo senso premevano l’intero sistema di lavorazione audiovisivo in Italia. Una serie amatissima che a più di dieci anni dalla sua fine, e dal film che ne proseguì l’avventura, ha sentito la necessità di ripartire, sia per rispondere al facile richiamo del passato e della nostalgia, sia per raccontare cosa è accaduto al mondo delle serie nell’ultimo decennio.
Quel che è accaduto porta il nome di “piattaforma”, ovvero le realtà dello streaming che oggi dominano il settore della produzione cinematografica e televisiva: la quarta stagione di Boris – online su Disney+ – vede la troupe che conosciamo dai tempi de Gli occhi del cuore intenta a girare e proporre alla Piattaforma una versione della vita di Gesù, come sempre diretta da René (Francesco Pannofino) e interpretata da Stanis (Pietro Sermonti), Corinna (Carolina Crescentini) e compagnia varia. Le avversità ora hanno però cambiato faccia, il problema non sono i soldi, sono gli algoritmi, il neoliberismo rampante – con l’ex-stagista Alessandro (Alessandro Tiberi) ora responsabile proprio della Piattaforma -, la correttezza politica che si lava la coscienza senza fare politica al cui confronto l’assenza professionale dei nostri protagonisti sembra quasi accettabile.
Scritta da Giacomo Ciarrapico e Luca Vendruscolo, due dei tre sceneggiatori originari che dedicano un paio di affettuosi omaggi al collega defunto Mattia Torre (- “Collega, com’è l’inferno?” – “Non male, è pieno di quarte stagioni”) anche grazie al personaggio di Valerio Aprea, Boris 4 cerca di fare lo stesso gioco delle prime tre annate, ovvero raccontare il mondo del lavoro nel settore del cinema e tv, mostrandone differenze e sfumature, ma soprattutto confrontandole con il Sistema, ovvero quell’ingranaggio impossibile da comprendere fatto di burocrazia, pigrizia e clientelismo che ha informato di sé l’intera nazione, come se la tv fosse letteralmente lo specchio del popolo che la guarda.
Quel sistema ha cambiato forma, modi e priorità, ma non intenzioni: “Esistono due tipi di pazzi: quelli che credono di essere Napoleone e quello che vogliono cambiare la televisione italiana”, dice René alla rappresentante della Piattaforma che tradisce l’ambizione di rinnovare il panorama culturale dall’alto dei capitali multinazionali, perché a contatto con quel sistema anche le migliori intenzioni finiscono risucchiate. Gli autori della serie cercano di guardare in faccia le tecniche, le dinamiche e i meccanismi della produzione e fruizione streaming, che sono poi le stesse dei nuovi ordini economici diffusi in tutto il mondo, ma al tempo stesso raccontano con sarcasmo la corresponsabilità di tutto coloro che in quel sistema ci campano, arricchiti o sopravvissuti, chi prospera e chi vivacchia ma sempre in modo funzionale al sistema.
Il metodo è sempre quello infallibile di costruire personaggi memorabili, interpretati da un cast in stato di grazia a partire dal Duccio di Ninni Bruschetta (stavolta alle prese con la cataratta) fino al sempre geniale Glauco di Giorgio Tirabassi, e regalare loro anche solo una battuta magnifica, un tocco, una trovata che in un colpo sappia rendere un mondo, come il rapporto tra Martellone (Massimiliano Bruno) e la sua voglia di imitare Fabrizio Gifuni; anche a costo, come avviene soprattutto nella seconda metà degli otto episodi di cui la serie è composta, di dare a questi tocchi e alle caratterizzazioni superbe il compito di superare alcune incertezze o incoerenza di scrittura, qualche debolezza, soprattutto un’aria di conservatorismo che mette Boris 4 un passo indietro alle ambizioni.
Sono però questioni venali rispetto al suo lavoro da sitcom, alla sua inventiva ridanciana e alla capacità dei due sceneggiatori – spesso e volentieri anche registi dei singoli episodi – di condensare uno spirito, di renderlo vivo, di rendere partecipe lo spettatore di quel mondo senza analizzarlo dall’alto; forse anche per questo, questa (per ora?) ultima stagione di Boris si chiude con una nota quasi di speranza. Forse “Un’altra televisione (non) è possibile”, come si diceva 15 anni fa, ma è giusto continuare a pensarlo e a provarci.
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