Ieri, Sant’Ambrogio, la Scala ha inaugurato la stagione lirica con una nuova produzione di “Boris” di Modest Musorgskij. Un’occasione importante dopo due anni di inaugurazioni un po’ troncate dalla pandemia. Nel “palco reale” c’erano il presidente del Repubblica, la presidente del Consiglio e la Presidente della Commissione europea, il Presidente del Senato con vari Ministri. In platea e nei palchi, molte autorità ed esponenti dell’industria e della finanza. Ben 35 minuti d’intervallo per vedere, farsi vedere e scambiare idee. Cena per fortunati invitati alla Società del Giardino. Buffet sul palcoscenico, per artisti, maestranze e giornalisti non invitati alla Società del Giardino.
L’opera non si rappresenta con grande frequenza ma non è nemmeno rara come talora si legge. Basti dire che solo alla Scala, tra il 1909 e il 2002, è apparsa nel cartellone di 25 stagioni – alla media di un “Boris” ogni quattro anni -, diretta da illustri direttori come Toscanini, Panizza, Guarnieri, Votto, Svetlanov, Gavazzeni, Abbado e Gergiev. Come nel caso delle recite dirette da Gergiev nel 2002, l’opera si rappresenta in questa occasione nella versione iniziale del 1869 in sette quadri e non nella più ampia e conosciuta versione del 1872 in nove quadri (tre ne furono aggiunti e uno venne soppresso). Il fatto che un titolo incentrato sulla storia politica russa vada in scena mentre è in corso la guerra russo-ucraina è un’amara coincidenza, poiché l’opera era stata messa in cantiere (come ogni teatro d’opera di rilievo internazionale, la Scala programma le proprie stagioni con largo anticipo) ben prima che le armate di Putin invadessero l’Ucraina. Alcuni ucraini protestavano fuori dal teatro, ma l’opera mostra come dal Cinquecento a oggi non è cambiato molto in termini di autoritarismo, intrighi, desiderio di espansione e povertà del popolo.
Modest Musorgskij mise a punto almeno due versioni del testo del “Boris”- basate, in parte, sulla “tragedia romantica” in 24 scene di Alekasndr Puškin (scritta nel 1825, ma pubblicata, dopo notevoli difficoltà con la censura zarista, nel 1831 e allestita, peraltro con numerosi tagli, solo nel 1870) e in parte sulla “Storia dello Stato Russo” di Nikolaj Karamazin (redatta nel 1816-29 e diventata un libro di testo ufficioso nella Russia dei Romanov). Puskin e Karamazin vedevano la vicenda di Boris (assurto al potere alla fine del Cinquecento in una terra sterminata ma dilaniata da lotte vaste profonde) con occhiali molto differenti. Puskin guardava a Shakespeare, alla tragedia del potere costruito sul delitto come in “Macbeth” e “Riccardo III”, ma poi travolto dai rimorsi, oltre che dai suoi stessi inganni. Karamazin, storico di corte, doveva avere, per ragioni di ufficio, una lettura ben differente: la tormentata vicenda dello zar usurpatore era solo un episodio nel processo che avrebbe portato alla pacificazione e all’unità di “tutte le Russie” grazie ai Romanov. In sintesi, in “Boris” si mette in scena il tentativo di creare (utilizzando pure l’infanticidio) l’unità politica della Russia. Il tentativo fallisce quando un giovane monaco (Grigori) si rivolta contro lo zar usurpatore (per l’appunto Boris Godunov), proclama di essere lui stesso in persona l’erede al trono sparito in circostanze misteriose (Dmitri), utilizza la propria avvenenza per conquistare la principessa alla guida della dieta polacca (o essere da lei sedotto) e, con l’aiuto dei gesuiti desiderosi di “cattolicizzare” la Russia, forma un’armata di insorti, di polacchi e anche di lituani per marciare contro Mosca. Nella versione definitiva del 1874, l’opera ha una conclusione aperta: armate si susseguono ad armate nella foresta per dare inizio a una guerra probabilmente millenaria. E l’Innocente (considerato un folle dall’aristocrazie) piange sulle miserie del Paese che, ritiene, resteranno eterne.
Il primo “Boris” o “Ur-Boris” è, invece, incentrato sull’ascesa e la caduta dello zar (presente in quattro quadri su sette); l’opera coniuga l’ambizione di contribuire a dare vita a un teatro in musica nazionale russo e a replicare le tragedie shakespeariane. Ebbe successo di pubblico, proprio per i suoi forti elementi di rottura in un mondo musicale in cui dominava la tradizione italiana e francese e si affacciava quella tedesca. Venne, però, stroncata duramente dalla critica: mancavano personaggio femminili (e non c’era, quindi, un intreccio d’amore), il tenore eroico (Grigori/Dmitri) era in scena solo in un atto e non c’era alcun balletto. Il secondo “Boris”, scritto e composto nel 1871-72, è, quindi, non più imperniato sulla tragedia dello zar travolto dai propri delitti e dalla propria brama sfrenata di potere, ma sul’ intera Russia e sul suo contesto internazionale nel “tempo dei torbidi”: il protagonista è presente in solo tre quadri su nove. C’è spazio per un intreccio politico-amoroso tra l’ambiziosa principessa polacca e il giovane “novizio” (Grigori/Dmitrij) dell’età dello zarevich Dmitrij (ucciso da Boris per assumere il trono) che prende le vesti e il nome del suo coetaneo e con l’aiuto di eserciti stranieri si prepara a diventare, egli stesso, un nuovo usurpatore. Vengono, però, operati numerosi tagli (quali la “scena di San Basilio” del complotto dei boiardi contro Boris indebolito dall’avanzare della coalizione guidata dal falso Dmitri) e c’è anche un breve balletto al ritmo di una “polacca”.
L’orchestrazione sia del primo che del secondo “Boris” era giudicata rozza anche dai suoi amici più cari (come Rimiskij-Korsakov) poiché Mussorgskij (autodidatta in quanto costretto a guadagnarsi il pane da ufficiale, prima, e da burocrate, poi) non la avrebbe sufficientemente curata. In aggiunta, Mussorgskij aveva l’abitudine di orchestrare le singole scene delle varie versioni mantenendo inalterata la scrittura a penna delle parti vocali (e non modificandola man mano che si evolveva da versione a versione). In effetti, sino a tempi relativamente recenti si rappresentavano edizioni che non corrispondevano a nessuna delle due edizioni e mezzo curate da Mussorgskij in persona; sino alla fine degli anni Sessanta veniva eseguita principalmente l’edizione “lunga” orchestrata da Rimiskij-Korsakov e più di recente quella, sempre “lunga”, curata da Šoštakovic (il quale curò anche una ri-orchestrazione dell’Ur-Boris, quasi mai eseguita neanche nella stessa Russia). Le differenze tra l’orchestrazione di Rimiskij-Korsakov e quella di Šoštakovic sono profonde: ottocentesca ma elegante come un arazzo seicentesco (e tale da smussare gli angoli più irti) la prima, possente e interamente novecentesca la seconda (densa di echi non solo di Richard Strauss ma anche del jazz). Nelle esecuzioni in teatro venivano spesso introdotti rimaneggiamenti di vario tipo basati, dal 1928, su un’edizione critica di Pavel Lamm e Boris Asaf’ev. Mentre in Russia e in numerosi Paesi dell’Europa orientale, si ascoltava la versione di Pavel Lamm e Boris Asaf’ev sino a tempi relativamente recenti (in particolare dall’esecuzione scenica di quella di Šoštakovic dal 1953), in Europa occidentale e negli Usa si seguiva, per lo più, quella raffinata ma fuorviante di Rimiskij-Korsakov e talvolta si sperimentava con quella di Šoštakovic. Nel 1975, infine, è stata pubblicata, in Gran Bretagna, una nuova edizione critica a cura di David Lloyd-Jones; viene rappresentata regolarmente al Metropolitan di New York (dove ha debuttato nel 1976) e altrove e mostra la potenza dell’orchestrazione originale; include “l’atto polacco” e la scena finale nella foresta.
Nonostante David Lloyd-Jones abbia approntato, un’edizione critica anche dello “Ur-Boris”, raramente viene eseguito il più breve, shakespeariano, lavoro del 1868-69 impostato sul drammatico confronto per il potere e il contrasto tra zar e popolo. In Italia, la revisione critica di Llod-Jones della versione in nove quadri è stata da me ascoltata Firenze nel 2005 e Palermo nel 2012: l’ho ascoltata anche a New York nel 1976. Devo dire che preferisco all'”Ur-Boris” ascoltato a Roma (inaugurazione di stagione del Teatro dell’Opera) nel 1998, la seconda versione. Mentre la prima versione è – come si è detto- imperniata sul “delitto e castigo” del protagonista, quella del 1871-72 è un affresco corale con un piglio politico di forte impatto scenico e rilevante impegno produttivo.
La regia è di Kasper Holten, già Direttore del Covent Garden, di cui ricordo un’ottima e innovativa “La Traviata” a Stoccolma circa quindici anni fa. In questo “Boris” scaligero, Holten getta uno sguardo dall’altro sulla storia della Russia, unendo alla partecipazione emotiva una riflessione sul valore della memoria e della testimonianza. Nella prima parte, l’azione scenica è chiaramente del Cinquecento, mentre nella seconda le scena è essenzialmente unica e i costumi variano dall’inizio del Novecento ai giorni nostri; ciò può piacere o non piacere. Altro aspetto discutibile è la presenza in palcoscenico del giovane zarevich Dmitrij, che dovrebbe essere solo nella mente tormentata di Boris. Le grandiose scene sono di Es Devlin, gli sfarzosi costumi di Ida Marie Ellekilde. Efficaci le luci di Jonas Bøg e Luke Halls.
Il cast include Norbert Ernst (Vasilij Suiskij, complice prima e poi traditore di Boris), Alexey Markov (Ščelkalov), Alexander Kravetz (Misail), Stanislav Trofimov (Varlaam) e Maria Barakova (la padrona dell’osteria) non sono cantanti di ampia notorietà in Italia, ma sono interpreti affidabilissimi nel repertorio russo. Il cast ruota tutto attorno a Ildar Abdrazakov, basso di spiccata personalità e lunga esperienza, che il pubblico scaligero ricorda come avvincente protagonista dell’Attila verdiano che inaugurò la stagione 2018-19. Frequente interprete al Metropolitan, a 48 anni ha l’età perfetta per Boris, nel cui ruolo è stato apprezzato di recente a Montecarlo. Semplicemente magnifico il finale con la morte di Boris cantata tutta in “mezza voce”. Di grande rilievo altri due interpreti sinora poco conosciuti in Italia: il primo è il tenore russo Dmitrij Golovnin (Grigorij) e il secondo è il basso estone Ain Anger, cui è affidata la bellissima, ieratica parte del narratore-cronachista Pimen. Dmitrij Golovnin, in particolare, ha un registro di mezzo, un timbro ed un volume che ricordano Nicolai Gedda… se vi par poco!
Il coro della Scala, preparato da Alberto Malazzi, è stato dei protagonisti. La preparazione di lunghi brani in russo ha richiesto tre mesi. La direzione d’orchestra di Riccardo Chailly pone l’accento sugli aspetti “moderni” della orchestrazione di Musorgskij, a volte ruvida a volte stridente, sempre con grande attenzione a non “coprire” le voci.
Grande successo. Cinque minuti di applausi dopo la prima parte e oltre un quarto d’ora al calar del sipario.
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