Non molti in Italia lo conoscono. Alcuni lo ricordano perché sindaco di Londra ai tempi delle Olimpiadi del 2012, altri per il gossip che lo circonda da sempre, altri ancora per l’incredibile somiglianza, pettinatura compresa, con uno dei suoi più grandi fan, il presidente americano Donald Trump. Boris Johnson ha sbaragliato l’avversario Jeremy Hunt alla leadership del Partito conservatore inglese con il 66% delle preferenze ed è automaticamente il nuovo primo ministro del Regno Unito, prendendo il posto della dimissionaria Theresa May. Ma chi è veramente? Lo abbiamo chiesto a Leonardo Maisano, commentatore da Londra del Sole 24 Ore: “Johnson viene dal mondo del giornalismo, dove si è fatto conoscere soprattutto per l’ego smisurato e la sua posizione duramente antieuropea, anche se come sindaco di Londra ha lasciato un buon ricordo. Chi sia e cosa rappresenti all’interno del Partito conservatore è difficile da dire; il suo modello, cosa che la dice lunga del personaggio, è nientemeno che Winston Churchill”.



Che area politica rappresenta Boris Johnson all’interno del Partito conservatore? A chi si ispira?

La sua figura di riferimento politico è Winston Churchill, cosa che la dice lunga del suo ego notoriamente smisurato. Ha vinto con un ampio sostegno, anche se in realtà marginalmente inferiore al consenso che ottenne David Cameron. Una vittoria comunque schiacciante sull’avversario Jeremy Hunt, come si era predetto sin dall’inizio. Johnson è una figura estremamente popolare nella base del partito, quella che lo ha eletto, 190mila iscritti che hanno scelto fra i due nel complesso meccanismo elettorale che anima la lotta per la guida del partito.



Qual è la sua idea politica?

È difficile da dire. Ha costruito la sua immagine prima come giornalista poi come politico, sopratutto nel primo caso con un atteggiamento di sfida e sfiducia nelle istituzioni europee. Lo ha fatto riuscendo così a guadagnare un proscenio che ama molto, gli piace essere al centro dell’attenzione, ma per un politico è un problema. A differenza della Thatcher, che sfidava continuamente il consenso della sua base elettorale andando contro la volontà apparente dei membri del partito convincendoli dopo della correttezza delle sue posizioni, Johnson ha un limite: ama essere amato, ha la potenziale debolezza del simpatico.



Si può definire populista?

Il populismo è ormai definizione che calza a qualunque forma di espressione politica, si può definire populista anche lui. Se pensiamo alla campagna elettorale che sottoscrisse per la Brexit nel 2016, che era una campagna basata su slogan assolutamente inconsistenti e irrealistici, certamente è populista. Questo tipo di approccio molto elastico con la realtà e la verità è una sua costante.

Come sindaco di Londra ha lasciato un buon ricordo?

Sì, una buona eredità, ma ricordiamoci che il sindaco di Londra non è una figura paragonabile ai sindaci italiani. Molto potere reale lo hanno il governo centrale e i consigli diciamo di zona. Il sindaco di Londra è una figura che assimila alcuni poteri di una città gigantesca ma non ha una forza politica reale, è più rappresentativo.

Si può dire che con Johnson nasce un nuovo Partito conservatore?

In un certo senso sì. Ma il problema di Johnson, del partito e della vita politica inglese continua da tre anni a essere uno solo e sempre lo stesso. I programmi del suo partito non saranno molto dissimili da quelli di Cameron o della May, non ci saranno differenze radicali, il problema è che di questi temi non si occupa nessuno perché il paese è esclusivamente concentrato su una cosa sola, la Brexit.

Che Johnson ha promesso di fare entro la fine del prossimo ottobre, anche senza un accordo con l’Unione Europea, il famoso no deal. Ci riuscirà?

Una Brexit senza no deal a parere mio e a parere dei più è un disastro economico e politico per il Regno Unito. Meno per l’Unione Europea.

In che senso?

Economicamente e politicamente i rapporti con l’Irlanda del Nord si basano sulla coesistenza all’interno di istituzioni più ampie come quella europea. Una uscita drammatica farebbe alzare il muro in Ulster fra le sei contee britanniche e l’Irlanda repubblicana, un muro fisico; di colpo ci sarebbero controlli sulle persone, sulle merci e questo diventerebbe un disastro politico ed economico.

Trump si è dichiarato sostenitore di Johnson sin da subito. Che rapporto c’è fra i due?

In realtà le cose non sono così semplici come si ama dire. Tempo fa Johnson doveva andare a New York, ma disse che non andava perché aveva il terrore di incontrare Trump da solo di notte per strada. Il rapporto fra i due non nasce sotto i migliori auspici. Certo, se la Gran Bretagna dovesse optare per lo strappo con l’Europa, si troverà sempre più vassallo degli Usa e costretta ad accettare una serie di misure per rilanciare quella relazione presunta speciale tra i due paesi. In attesa poi di rilanciare il sogno di una nuova Brexit con quello che resta del Commonwealth sotto forma di nuova cooperazione con la guida formale britannica degli ex paesi dell’impero.

C’è un leader europeo che ha stima, fiducia di lui?

No, non ci sono leader europei che hanno rapporti di stima o speciali. Johnson è stato brevemente ministro degli Esteri ma non ha lasciato una buon ricordo, non ha esperienze governative specifiche e quindi non ha avuto tempo di costruire particolari rapporti internazionali.

Il leader laburista, Jeremy Corbyn, sarà un avversario alla sua altezza?

In realtà Corbyn è il più grande alleato di Johnson.

Cosa intende?

Se ci fossero le elezioni, uno scenario molto probabile, l’idea di una possibile vittoria di Corbyn spingerà molti obtorto collo a votare per Johnson, purché non vinca il leader laburista.

Come mai?

Corbyn fa paura, non piace, ha politiche radicali, è lo spauracchio di tutti gli inglesi, è su posizioni talmente radicali che sembra sia stato scongelato direttamente dagli anni 70.

(Paolo Vites)