È singolare che l’accelerazione impressa da Francesco Gaetano Caltagirone al caso Generali sia concisa con un passaggio di massimo livello politico-diplomatico al confine italo-francese: la telefonata fra Emmanuel Macron e Mario Draghi che ha sbloccato la cattura di alcuni terroristi italiani rifugiati Oltralpe da più di un trentennio. Ma, sempre ieri, campeggiava sulle cronache finanziarie anche il disgelo fra Mediaset e Vivendi: ancora sull’interfaccia fra Italia e Francia. Anzi:  Vincent Bolloré – in trincea oggi in Italia sotto le mura del Biscione dopo esserlo stato sotto quelle di Tim – è lo stesso “raider” che vent’anni fa era comparso all’improvviso come “defensor” dentro le mura di Mediobanca e aveva scatenato la prima “scalata nazionale” al Leone di Trieste. Perché la storia dell’ultimo mezzo secolo delle Generali è questo: una partita – apparentemente eterna, intricata e irrisolvibile – fra establishment italiano e francese.



Nel 2002 Enrico Cuccia – padre-padrone di Mediobanca – era scomparso già da due anni, ma il suo delfino Vincenzo Maranghi non aveva perso un istante per tenere a distanza le mille mire nazionali su quella che era già allora soprattutto la cassaforte delle Generali. E l’arrocco – un'”auto-scalata” capeggiata da Bolloré – aveva battuto le orme di un accordo originario: quello fra Mediobanca e Lazard che nei primi anni ’70 aveva dato stabilità di assetti a una delle Big Three assicurative europee assieme ad Axa e Allianz. La “fuga francese” di Piazzetta Cuccia costò il posto a Maranghi, ma costrinse l’intero sistema finanziario italiano a mobilitarsi sotto la regia dell’allora governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio: UniCredit di Alessandro Profumo, Capitalia di Cesare Geronzi e Banca Intesa di Giovanni Bazoli, le grandi Fondazioni (Cariplo, Compagnia San Paolo, Crt e Cariverona) scalarono le Generali, bloccandone la francesizzazione: ma non riuscirono a scalfire il mito cucciano dell’autonomia di Mediobanca (pur nata sotto l’ombrello statale dell’Iri) e quindi delle Generali.



Nel 2021 il mito di via Filodrammatici appare irrimediabilmente appannato (mentre lo stesso Bolloré è in ritirata) e il Leone naviga da anni in acque medie: nei risultati economici e nei valori di Borsa. È l’effetto di una strategia puramente conservativa, esito della marginalizzazione di Mediobanca nell’investment banking italiano e internazionale. Il Ceo è comunque un francese: Philippe Donnet. Contro di lui ha deciso di muovere il vicepresidente vicario delle Generali, Caltagirone: un industriale e immobiliarista romano, ma francese d’adozione: dopo aver concambiato la sua quota nella multiutility capitolina Acea in azioni della finanziaria parigina Suez. È lui che ha deciso di sfiduciare clamorosamente Donet (e Mediobanca) annunciando di voler disertare l’assemblea di bilancio. Ma il suo pacchetto a Trieste, superiore al 5%, è ormai la metà di quello storico di Mediobanca nel Leone. E mentre Caltagirone è entrato anche nel capitale di piazzetta Cuccia, Leonardo del Vecchio ha agguantato sia l’istituto (di cui è primo azionista con l’11%) sia la compagnia (5%). Un altro “italo-francese” Del Vecchio: azionista di maggioranza di Essilor-Luxottica e patron di Covivio, una cassaforte immobiliare basata a Parigi.



Romano Caltagirone: della città dove Generali ha avuto una delle sue tre storiche “capitali”. La seconda è Venezia: in quel Nordest che è la seconda patria del milanese Del Vecchio. Chissà se saranno loro a ricostruire su basi solide l’asse Trieste-Parigi. Con il silenzio assenso di Draghi.

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