L’anno che sta volgendo al termine può essere ricordato come uno dei più emblematici in tema di politica monetaria statunitense. Il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha sistematicamente inviato messaggi al governatore della Federal Reserve sollecitando i propri indirizzi. I singoli tweet – lo strumento di comunicazione abitudinaria del leader della Casa Bianca – si sono quasi sempre caratterizzati per i moniti e, talvolta, per i giudizi espressi in contraddizione con l’operato di Jerome Powell e relative deduzioni. Ne riportiamo solo alcune diffuse nel semestre in corso. «’Ho il diritto di licenziare’ il presidente della Federal Reserve, Powell, dice Trump in un’intervista a Fox, aggiungendo che i tassi non dovevano essere alzati ai livelli attuali e che gli Stati Uniti dovrebbero avere Mario Draghi invece che la ‘persona che abbiamo’, Powell appunto, alla Fed». (fonte Ansa). «Se non abbassa i tassi e non stimola l’economia la Federal Reserve non fa il suo dovere» (fonte Ansa). E inoltre: «La Federal Reserve dovrebbe abbassare i nostri tassi di interesse a zero, o meno, e dovremmo quindi iniziare a rifinanziare il nostro debito. I costi degli interessi potrebbero essere trasformati, mentre allo stesso tempo allungano notevolmente il termine. Abbiamo la grande valuta, il potere e il bilancio… Gli Stati Uniti dovrebbero sempre pagare la tariffa più bassa. Nessuna inflazione!» e infine «È solo l’ingenuità di Jay Powell e della Federal Reserve che non ci consente di fare ciò che altri paesi stanno già facendo» (fonte Reuters).



Leggendo tali affermazioni, anche chi non avesse la passione o l’interesse diretto per la finanza rimarrebbe alquanto impressionato per la forza e i toni usati nei confronti di un governatore di una banca centrale, anzi, potremmo dire, “della banca centrale”, vista l’importanza sistematica che ricopre con le sue azioni sull’intero mondo finanziario. Ma cosa si cela dietro questa frenesia nel voler intervenire (soprattutto al ribasso) sulla delicata politica monetaria Usa? Come sempre, i mercati e i loro prezzi ci possono venire in aiuto.



Focalizziamo la nostra attenzione sull’andamento degli ultimi venti anni dei seguenti sottostanti: l’indice azionario S&P 500, il future sul Treasury Note e il relativo rendimento degli stessi titoli di stato Usa sempre con scadenza decennale.

Ad agosto 2019, i rendimenti a dieci anni fatti registrare (area 1,45%), hanno pressoché eguagliato i livelli dello scorso luglio 2012 e luglio 2016. In prossimità di tali minimi storici, il principale indice azionario mondiale rappresentato dallo S&P 500, ha invece fatto seguire tre massimi crescenti consecutivi.

Sempre rimanendo in tema, ma, volgendo lo sguardo sulla comparazione tra l’andamento del future sul Treasury rispetto allo stesso indice S&P 500, si possono notare alcune interessanti correlazioni e decorrelazioni (tra l’inizio e la fine del periodo preso in esame) non sempre rispettate ovvero: tra il 1998 e il 2000, a una crescita dell’indice Usa ha corrisposto una discesa del decennale. Tale dinamica (decorrelata) si può riscontrare anche nel corso del periodo compreso tra il 2015 e il 2018. Per quanto riguarda invece l’esteso orizzonte temporale tra il 2000 e il 2007, si assiste a una verosimile lateralità del mercato azionario rispetto a una crescita della componente obbligazionaria. Infine, arrivando ai giorni nostri, tra la fine del 2018 e le attuali quotazioni, si può facilmente accertare una contestuale crescita tra i due benchmark presi in esame e pertanto con il segno positivo.



È proprio quest’ultima rilevazione che non depone a favore della politica della stessa Fed o – all’opposto – desta molta preoccupazione nel leader Donald Trump in ottica di prossimo mandato presidenziale. Di fatto, durante gli ultimi dodici mesi, abbiamo potuto assistere a nuovi massimi storici con successivi ritocchi dei propri record fatti registrare dagli asset equity statunitensi. Parallelamente, ma di entità ovviamente diversa ma comunque rilevante, si è potuto assistere a un significativo posizionamento anche in ambito bond (rif. Treasury Note). A seguito di tale rilievo, il dubbio che permane nei pensieri del presidente Usa e – soprattutto – negli operatori finanziari, potrebbe essere rappresentato dalla correlazione sopra citata quale elemento di “salvaguardia” (motivo degli acquisti di titoli di stato) a tutela di una possibile discesa del mercato azionario. Probabilmente il tycoon Donald Trump avrebbe preferito un “all in” sulla sola componente equity ma ciò il mercato non l’ha fatto.

L’aver privilegiato – anche – i bond a stelle e strisce rappresenta una forma di doverosa diversificazione del portafoglio? Noi non crediamo a tale ipotesi. Possiamo invece dedurre che alla base di tale alternativo e parallelo posizionamento ci sia una latente sfiducia.

Nel corso del 2020, le carte, obbligatoriamente, saranno scoperte.