L’origine del coronavirus è ancora oggetto di ricerca e indagine da parte dell’Oms. Lo ha rivelato il capo delle emergenze Mike Ryan sottolineando, inoltre, come da Pechino siano giunte “rassicurazioni” per “facilitare le operazioni in campo” (fonte Ansa). Un anno fa il Covid-19 iniziava a prendere forma e, senza ancora catalizzare su di sé la cronaca giornaliera, diffondeva la propria minaccia tra i tessuti sociali della comunità cinese. Wuhan, una città che fino ad allora non era conosciuta dal mondo, a distanza di poche settimane rappresentava l’epicentro della nuova epidemia che, con il trascorrere delle giornate, avrebbe raggiunto il mondo divenendo una pandemia globale. Con il trascorrere delle settimane, sui mercati finanziari internazionali il neonato “cigno nero”, mai embrione ma già adulto e forte, avrebbe inficiato sul buon andamento dell’economie dei singoli Paesi e dell’intero pianeta e il destino degli stessi risparmi ne avrebbero risentito significativamente. Oggi, a distanza di un anno, la precedente narrazione non trova però riscontro nella realtà dei numeri.



Analizzando l’andamento dei comparti di investimento (fondi comuni di investimento e/o Sicav) che investono prevalentemente in Cina si può facilmente constatare come i rendimenti finora conseguiti siano alquanto “stratosferici”. Gli appartenenti alla categoria “Azionari Cina” (rif. Morningstar) vedono un panel costituito da 306 strumenti finanziari mentre quelli riconducibili alla “Cina – A shares” sono 91. In entrambi le selezioni – i migliori in classifica – vedono il valore dei loro guadagni in rialzo di oltre cinquanta punti percentuali (i primi) mentre di poco inferiore al 50% i secondi. L’osservazione è stata fatta sia da inizio anno (YTD ossia year to date) che a un anno (valore annualizzato) e, nonostante la diversa categoria di appartenenza, le percentuali di ritorno in conto capitale non mutano di molto.



Estendendo l’analisi, e scegliendo il contrapposto (geograficamente) segmento “Azionario Usa”, le differenze con i gestori di oltreoceano sono notevoli. Mantenendo lo stesso orizzonte temporale, i 268 comparti della cosiddetta categoria “Large Cap Value” registrano un ritorno positivo pari al 5% (YTD), mentre cresce maggiormente la performance (di ulteriori due punti percentuali) con il monitoraggio a un anno (valore annualizzato). Altri emblematici valori si hanno con gli “Azionari USA Large Cap Growth” (439 strumenti): fatta eccezione per gli oltre 90 punti percentuali (sia YTD che a 1 anno) dei primi classificati, il resto del gruppo segue con solo il 50%. L’insieme di queste risultanze – ovviamente – fa riferimento ai migliori di ciascuna categoria (anche se complessivamente sono un buon numero) escludendo pertanto tutti coloro che hanno sottoperformato rispetto ai valori riportati.



Numeri alla mano, anche questa volta, “il cigno” è stato sconfitto dal “toro” (rappresentativo dei mercati al rialzo) e – come molto spesso accade – “la finanza” ha avuto il sopravvento sull'”economia”. In questo intero moto finanziario la coerenza tra il fatto accaduto (Covid-19) e le conseguenze a esso imputabile (crisi economica) non trova – di certo – una plausibile e sostenibile argomentazione ai fini pratici (performance conseguite). Il classico (e disfunzionale) paradosso tra la teoria e la pratica sembra aver sovvertito ogni possibile teoria economica. Non è la prima volta e non sarà l’ultima. Dal punto di vista meramente quantitativo, ciò che si è potuto finora osservare andrà ad arricchire i vari database composti prevalentemente da cifre lasciando il campo aperto ai numerosi e infiniti discorsi a corollario (a posteriori) sulle varie risultanze.

La conclusione è semplice: il mercato ha sempre ragione, mentre chi avrà sempre e solo torto (perdendoci!) saranno gli investitori ingannati dalle loro stesse convinzioni.