I principali indici azionari, incluso quello italiano, ieri hanno chiuso con cali netti dopo un weekend in cui è ricomparso il rischio di nuove chiusure e restrizioni in “Occidente”. All’inizio di dicembre in una nota mattutina di Jp Morgan ai propri clienti si poteva leggere questo: “Molti clienti ci hanno detto di non essere preoccupati della variante omicron in quanto tale, ma della reazione dei Governi”. Qualsiasi cosa comporti la variante omicron, su cui si è già letto tutto e il contrario di tutto, nuove restrizioni sono già comparse in alcuni Paesi europei e in altri sembrano imminenti; rimane solo da scoprire la loro quantità e intensità. Non è la prima volta nelle ultime settimane che il mercato reagisce in questo modo; alla fine di novembre la comparsa della nuova variante aveva sortito lo stesso effetto borsistico. I mercati avevano assorbito l’iniziale sbandata proprio perché i “Governi” avevano tenuto aperto.
La novità è negativa per due ragioni. La prima è che la normalità che si era prospettata con l’avanzamento della campagna vaccinale che avrebbe consentito di “tenere aperto” non c’è più; la seconda è che, a questo punto, non è chiaro quale sia la nuova normalità o la nuova prospettiva. È un’incertezza politica che ai mercati può solo fare male; gli investitori sono lasciati a interrogarsi se si tornerà ai lockdown, se servirà una terza dose per tutti come nuova condizione per le riaperture, oppure se avremo una combinazione di vaccini e tamponi che richiederebbero una capacità di analisi multipla rispetto a quella attuale. In questo scenario interi settori, sempre i soliti per altro, subiscono l’incertezza massima.
La questione si può riassumere così: quali sono, se ci sono, le condizioni per tenere aperto? A oggi non c’è risposta. Anche se la variante omicron non determinasse un picco ingestibile delle ospedalizzazioni il problema si porrebbe lo stesso perché intanto le chiusure partono e i danni si consumano. Se tra tre mesi scoprissimo che era particolarmente contagiosa ma non pericolosa i danni si sarebbero già prodotti e le certezze degli investitori sarebbero già intaccate.
Potrebbe essere “l’occasione” per un posticipo della minacciata normalizzazione delle politiche monetarie delle Banche centrali e i mercati potrebbero controbilanciare incorporando politiche monetarie più durature di quanto ci si attendeva un mese fa. Il problema è che non siamo né nella situazione di primavera 2020, né in quella dell’inverno 2020/2021. Le imprese oggi portano nei bilanci i segni delle chiusure forzate e soprattutto, a differenza di sei mesi fa, oggi l’inflazione in alcuni Paesi è ai massimi degli ultimi decenni. Le politiche di immissione di liquidità, giuste o sbagliate che siano, potrebbero essere meno popolari e comunque bisognerebbe fare i conti con un problema nuovo.
Per tutta la prima fase della pandemia intere categorie hanno mantenuto i redditi inalterati in uno scenario di prezzi stabili o addirittura in diminuzione. Oggi ciò non sarebbe più possibile. Questo, esattamente come la decisione di chiudere o meno, è un problema politico.
Peggio dell’inflazione e dei tassi bassi c’è solo l’inflazione e i tassi alti se il fenomeno inflattivo, come sembra, dipende anche da fattori che non hanno niente o hanno pochissimo a che fare con le politiche delle Banche centrali. Sospettiamo che il fenomeno inflattivo, coperto dalla cronaca quotidiana sulla pandemia, arriverà come un fulmine a ciel sereno per moltissime famiglie e anche molte imprese. La domanda che si credeva robusta in alcuni settori potrebbe evaporare.
È una fase complicata da leggere in cui si intrecciano spinte uguali e contrarie; per esempio, le chiusure hanno un effetto deflattivo e diminuiscono i consumi, anche energetici, mentre la mancanza di offerta di elettricità e gas agisce in senso opposto. I mercati non possono non fare fatica in questa fase e subire gli effetti di una tale incertezza anche se le condizioni monetarie e di liquidità rimangono ultra accomodanti.
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