Nonostante la metà dei membri della Fed si aspetti tassi più alti di almeno un punto percentuale nel 2023 rispetto allo 0,5% atteso a giugno e nonostante manchino meno di due mesi, novembre, all’inizio della riduzione delle politiche di immissione della liquidità, i mercati ieri sera non hanno sbandato e anzi hanno chiuso in rialzo. Non tutti i movimenti sono stati coerenti perché il dollaro si è rafforzato e l’oro è sceso: due fenomeni che normalmente si accompagnano a politiche monetarie meno esuberanti. 



La Fed continua a dire che il mercato del lavoro ha ancora bisogno di stimoli e che è disposta a convivere con un’inflazione sopra il 2% per un certo periodo visto che le aspettative di lungo termine sui prezzi sono ancora ferme al 2%. Non è chiaro se i mercati non abbiano ancora elaborato un comunicato sicuramente meno accomodante di quello di giugno o se semplicemente l’orizzonte temporale degli investitori sia così di breve termine che non si ritiene di doversi preoccupare fino al penultimo secondo. In questo ultimo caso la scommessa è che ci sia tempo e liquidità per tutti per potere uscire in maniera ordinata e pulita nel caso si dovesse cambiare direzione. 



La saga Evergrande in questo momento è ancora, in un certo senso, sospesa, e i mercati dovranno presto spostare l’attenzione sulle discussioni relative al tetto al debito americano. Gli elementi di possibilità volatilità non mancano. Sempre ieri sera la Fed ha deciso di raddoppiare, da 80 a 160 miliardi di dollari, l’importo che è possibile parcheggiare presso la banca centrale per le controparti accettate mentre il totale della liquidità parcheggiata presso la banca centrale ha raggiunto il nuovo massimo a quasi 1.300 miliardi di dollari. 

L’impressione è che i mercati continuino indisturbati perché non possono fare altro che questo nelle condizioni attuali. Non ci sono alternative. Fino a sei/dodici mesi fa tenere i soldi fuori dai listini era un’opzione indolore in un contesto di sostanziale assenza di inflazione; oggi questo non è più possibile perché l’inflazione non solo è un multiplo di quella di dodici mesi fa, ma è anche sensibilmente superiore a quella “dichiarata”. I mercati continuano indisturbati, ma la banca centrale americana offre alle controparti autorizzate un porto sicuro che viene sfruttato in misura via via crescente.



È come se fosse stata approntata una difesa o una protezione da possibili inversioni o da possibili picchi di volatilità. Non si tratta di essere pessimisti, ma di constatare che sul tappeto ci sono tante tensioni irrisolte: dalla rivoluzione verde alla ristrutturazione delle catene di fornitura globale fino a un’evoluzione dei rapporti geopolitici che è una marcia indietro evidente rispetto alla “globalizzazione” e alle fratture tra alleati atlantici. L’inflazione potrebbe essere la “scusa” che politicamente può dare il via al cambio di politica monetaria.

La domanda vera per noi “europei”, soprattutto per quelli indebitati e meno “sovrani”, è cosa succederebbe in un’ipotetica prossima fase di volatilità finanziaria. Se la ritirata “militare” americana dall’Europa è il preludio di una ritirata più ampia allora bisogna incorporare scenari nuovi e tendenzialmente molto più complicati.

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