Negli ultimi due giorni i mercati azionari hanno chiuso con cali marcati dopo un inizio d’anno positivo. I segnali che hanno fatto spaventare gli investitori arrivano dagli Stati Uniti; in particolare hanno sofferto le banche regionali e si cominciano a notare segnali di rallentamento nel settore immobiliare e in quello delle costruzioni. Sono gli effetti dell’incremento dei tassi della Federal Reserve e della convinzione che possano rimanere alti più a lungo di quanto si credesse qualche mese fa; ciò significa che non possono più essere visti come un incidente di percorso e le imprese devono incorporare la nuova realtà nei piani di medio termine.



I prossimi dati sull’inflazione e sul mercato del lavoro sono i più importanti del semestre perché daranno la misura di quanto i rialzi fatti finora hanno inciso sull’economia e sull’incremento dei prezzi. Il mercato obbligazionario sovrano, che negli ultimi giorni ha visto una discesa dei rendimenti, con ogni probabilità indica che davanti a noi c’è una fase di rallentamento economico, di rallentamento dell’inflazione e forse di crisi finanziaria circoscritta ad alcuni settori a partire, ma non solo, dalle banche regionali americane colpite dalla salita dei tassi a breve.



L’inflazione, a prescindere da quello che succederà nelle prossime settimane e mesi, difficilmente tornerà ai livelli visti nel ventennio finito ad autunno 2021 a meno di ipotizzare una recessione molto grave. Ricordiamo che meno di un mese fa, Silvana Tenreyro, un membro esterno del comitato di politica monetaria della Bank of England, in un’audizione davanti al Parlamento inglese dichiarava che “per raggiungere il target del 2% di inflazione nel 2022 avremmo avuto bisogno di una deflazione nei servizi del 15%” e che “questo livello richiederebbe una massiccia recessione con una disoccupazione in doppia cifra”.



La questione che si apre in questi giorni è come reagiranno le banche centrali di fronte a un possibile peggioramento del mercato del lavoro accompagnato magari da un calo dell’inflazione e da qualche segnale di sofferenza finanziaria. Finora le banche centrali non hanno dovuto preoccuparsi di nessuna delle tre cose perché l’economia ha continuato a tirare nonostante il rialzo dei tassi.

La seconda questione che si apre, molto più interessante e di lungo periodo, è quali siano gli strumenti che le banche centrali possono mettere in campo dopo aver dilatato i propri bilanci oltre qualsiasi livello sarebbe stato ritenuto possibile e con gli Stati che hanno ancora oggi politiche fiscali accomodanti. Supponiamo che di fronte ai primi dati di rallentamento le banche centrali smettano di alzare i tassi; questo ridarebbe forza all’inflazione. In caso opposto i primi segnali di rallentamento e di crisi finanziaria si moltiplicherebbero molto prima di una riduzione consistente dei bilanci delle banche centrali.

Le banche centrali hanno bisogno di nuovi strumenti e di una politica monetaria molto più capillare. In questo quadro le valute digitali sono una tentazione irresistibile. Il contraltare è il rischio per la libertà economica che cede il passo a una discrezionalità nell’uso dei soldi di tutti politica e non immune alle pressioni della “rendita” che è uscita dalla crisi di Lehman e poi da quella del Covid più forte che mai.

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