L’inflazione americana a dicembre, comunicata ieri, è salita al 2,9% dal 2,7% del mese precedente, ma il dato “core”, al netto di alimentari ed energia, è sceso al 3,2% contro il 3,3% di novembre ed è stato sotto le attese. La variazione congiunturale per il dato core (+0,2%) è scesa dopo quattro mesi consecutivi di incrementi dello 0,3%. I prezzi dei servizi salgono ancora del 4,4%, mentre scendono la componente energetica (-0,5%) e i prezzi delle auto usate, -3,3%.
L’uscita del dato ha permesso ai mercati di tirare un sospiro di sollievo dopo un inizio d’anno complicato in cui si erano registrate tensioni soprattutto sul mercato dei titoli di stato inglesi; anche le parti dei mercati ritenute più fragili, come le banche regionali americane, avevano mostrato segnali di sofferenza. Nelle ultime settimane, infatti, le aspettative degli investitori erano arrivate a incorporare una probabilità inferiore al 50% di un secondo taglio dei tassi della Fed nel 2025 e spingevano il primo taglio oltre la riunione di marzo; si incorporava una possibilità non trascurabile che la Fed non facesse nemmeno un taglio. Dopo il comunicato di ieri gli investitori sono tornati a incorporare due tagli ed è tornato sul tavolo la possibilità di un primo taglio già a marzo.
L’inflazione rimane l’osservata speciale perché da essa dipende la politica monetaria della Fed in uno scenario in cui il Pil americano continua a salire e il mercato del lavoro rimane solido. Il migliore dei mondi possibili per gli investitori è quello di un rallentamento dell’attività economica, rispetto ai livelli del 2022/2023, che non diventa una crisi, in cui l’inflazione tende al 2% e in cui la Fed può ancora tagliare. In questo mondo, come si è visto ancora una volta ieri, i mercati salgono e si possono accantonare i timori sugli eccessi di leva e sulle valutazioni degli attivi più discutibili. Tutto “gira” fino a che i tassi non salgono troppo. Anche i timori sui conti pubblici americani vengono attutiti se inflazione e tassi non salgono. All’opposto, invece, si materializza il rischio di un circolo vizioso in cui soffrono i mercati azionari e obbligazionari e gli investitori tornano a occuparsi della salute dei conti pubblici americani senza che ci sia una soluzione chiara.
Le incognite sulle politiche commerciali di Trump rimangono sullo sfondo; i dazi e la guerra commerciale sono inflattivi, ma a oggi nessuno sa con certezza che forma prenderanno. È un rischio potenziale che si è obbligati a considerare senza che si possa affiancare un numero. Anche la Fed valuta il rischio e lo incorpora nelle sue decisioni di politica monetaria.
Intanto in queste prime settimane dell’anno si sono già viste reazioni scomposte sia al rialzo che al ribasso. È la prova che l’equilibrio è fragile e che sotto la superficie ci sono criticità che non si possono ignorare anche quando le cose “vanno bene”.
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