Nella guerra sui dazi in atto tra Usa e Cina, una parte della storia è nota: gli americani importano dalla Cina molto di più di quello che i cinesi importano dagli Usa, lo sbilancio è di circa 500 miliardi di dollari, e dal momento che il deficit commerciale statunitense è un problema annoso e grave, l’amministrazione Trump ha deciso di mettere un limite all’espansione di questo disavanzo. Ci sono, poi, aspetti più politici, meno evidenti ma non meno importanti, sui quali si è arenato il negoziato che negli ultimi mesi sta tenendo con il fiato sospeso i mercati finanziari: gli Stati Uniti accusano Pechino di spionaggio industriale e pratiche scorrette in merito all’appropriazione indebita di tecnologia e vogliono mettere un limite anche su questo fronte prima che sia troppo tardi. Ecco perché Donald Trump usa con i cinesi il bastone e la carota. E secondo Alessandro Magagnoli, analista tecnico e co-fondatore di Financial Trend Analysis (Ftaonline), “l’accordo probabilmente verrà raggiunto, anche se ormai la scadenza viene spostata sempre più in là. Ma sugli altri aspetti la guerra è aperta ed è con buona probabilità destinata a continuare”.
Ma agli americani questa prospettiva, da un punto di vista economico, conviene?
Trump nelle sue dichiarazioni lascia intendere che sono i cinesi, le aziende cinesi, a pagare i dazi finanziando così il Tesoro Usa, ma la realtà è che il costo addizionale viene pagato dagli importatori statunitensi, che possono poi decidere o di alzare i prezzi di vendita o diminuire i loro profitti. Uno studio di Bank of America Merrill Lynch calcola che i dazi addizionali sui 200 miliardi appena imposti potrebbero avere un impatto negativo sulle 500 società dell’S&P 500 in media del 2% dell’utile per azione, a cui si aggiungerebbe quindi un altro 2-3% se le nuove tariffe doganali dovessero essere estese ad altri 300 miliardi di merci.
Un impatto ci sarebbe anche sul Pil cinese. Quanto significativo?
Potrebbe essere nell’ordine dello 0,2-0,3% con i dazi attuali, il doppio in caso questi venissero estesi, ma di certo anche gli Usa dovrebbero sopportare un costo notevole per portare avanti questa guerra. Per il momento ad aprile le esportazioni cinesi verso gli Usa sono diminuite del 13,1% su base annua, ma le importazioni sono diminuite del 25,7%, quindi il deficit commerciale Usa con la Cina è in realtà aumentato. Prendendo come riferimento l’ultimo trimestre del 2018 le esportazioni cinesi verso gli Stati Uniti sono scese del 3% e le importazioni cinesi di merci provenienti dagli Usa scese del 15%.
Intanto la Cina come ha reagito?
Per limitare i danni si è mossa facendo perdere valore allo yuan, da area 6,67 a 6,83 circa, per recuperare competitività, ma è una manovra che ha effetti collaterali non trascurabili (ovviamente sul costo delle importazioni e degli investimenti all’estero) e che quindi non può essere perseguita oltre certi limiti. Il governo Usa, da parte sua, potrebbe invece convincere la Fed a tagliare il costo del denaro: gli americani lo hanno alzato negli ultimi anni e quindi il margine ci sarebbe.
Ma qual è l’obiettivo di Trump?
Se l’intento di Trump è prevalere anche sul fronte degli aspetti politici e non solo economici dell’accordo, la guerra è destinata a durare ancora a lungo e con esiti incerti. E com’è ben noto la parola incertezza è nemica delle Borse.
Non c’è però il rischio che un deterioramento del clima per i mercati finanziari si senta di più in Europa che negli Usa o in Cina?
Sì, l’Europa è in mezzo a questi due giganti e sta per vivere una fase di grande incertezza, legata anche all’esito delle prossime elezioni del 26 maggio. Recentemente l’indice Zew sulle aspettative di crescita economica dell’Eurozona è sceso a -1,6 punti dai 4,5 punti di aprile. Il valore si mantiene molto al di sotto della soglia dello zero, quella che separa una visione ottimista sul futuro da una pessimista. Il dato relativo alla sola Germania è di -2,1 punti, quando il precedente era di 3,1 punti, e a essere molto negative sono le attese sul futuro.
Solo il sentiment è in deterioramento?
No. Eurostat ha comunicato che a marzo l’indice della produzione industriale è sceso su base mensile dello 0,3%, come da attese, peggio della flessione dello 0,1% di febbraio. Su base annua la variazione è -0,6%, mentre a febbraio era stata nulla.
Quali strumenti hanno a disposizione gli investitori per cercare di monitorare l’evoluzione di queste tensioni ed eventualmente approntare le giuste contromisure?
Guardando agli Usa, oltre all’ovvia osservazione dell’andamento dei principali indici di Wall Street, ci sono anche alcuni titoli azionari che funzionano molto bene come barometro della crisi: Apple e Caterpillar sono infatti tra i titoli più sensibili alle prospettive dell’export e dell’andamento dell’economia globale.
Cosa si legge sul grafico di Apple?
Apple ha recentemente sofferto molto, scendendo al di sotto dei 190 dollari, e sembra intenzionato a confermare i recenti segnali di debolezza. Finché i prezzi saranno al di sotto di area 195 dollari, la partita risulterà in mano alla squadra dei venditori e si potrebbero anticipare ribassi anche estesi. Da non dimenticare, infatti, la presenza di due vistosi gap al rialzo lasciati l’11 marzo a 173,07 e il 30 gennaio a 158,13 dollari, che il mercato potrebbe ora voler ricoprire. Anche il fatto che il rialzo degli ultimi mesi si sia arrestato il 1° maggio con un vistoso “shooting star” proprio a contatto con il 78,6% di ritracciamento della discesa dai massimi di ottobre è un ulteriore elemento di preoccupazione: senza la rottura di questo riferimento ricavato dalla successione di Fibonacci il rialzo visto dai minimi di gennaio resta di natura “correttiva”, non converte quindi il trend ribassista precedente in una nuova tendenza crescente.
E in un’ottica temporale più estesa?
La discesa avviata nelle ultime ore potrebbe essere quell’elemento terminale della fase correttiva iniziata con i massimi dello scorso anno che potrebbe scendere fino a interessare in area 120-125 dollari, la trend line rialzista che parte dai minimi del 2009. Solo una chiusura di seduta oltre area 195/200 dollari sarebbe a questo punto un chiaro segnale di rientro delle tensioni ribassiste.
Anche il barometro di Caterpillar segna tempesta?
Il fatto che il titolo Caterpillar recentemente sia stato debole è un brutto colpo per le speranze dei mercati finanziari, che solo pochi giorni fa si erano convinti di essere ormai alla fine di questa brutta storia deklla guerra sui dazi tra Usa e Cina. Il crollo di Caterpillar a 126 dollari circa trova la base del canale moderatamente crescente disegnato dai minimi di fine ottobre. La violazione di questo supporto costringerebbe a considerare l’intero canale un “flag”, figura di continuazione della precedente tendenza ribassista, quella attiva dai massimi di inizio 2018, che potrebbe in quel caso riprendere. Primo obiettivo del ribasso sui minimi di ottobre a 112,25, coincidenti con il 50% di ritracciamento del rialzo da inizio 2016, successivo a 100 dollari. La tenuta in chiusura di seduta di area 126 sarebbe, quindi, una bella notizia, anche se solo la rottura poi di area 131,79, lato alto del gap del 9 maggio, segnalerebbe un concreto, anche se forse solo temporaneo, allentamento delle tensioni al ribasso.
Sui mercati internazionali che cosa è opportuno seguire?
L’andamento dello won della Corea e l’indice di Borsa di Seul, il Kospi, risentono molto entrambi dell tensioni Usa-Cina. Lo won coreano recentemente è sceso contro dollaro Usa ai minimi degli ultimi due anni, portandosi al di sopra della resistenza di area 1.170 won per dollaro, quota coincidente con il 61,8% di ritracciamento del ribasso dai massimi di inizio 2016. Se i prezzi si dovessero confermare al di sopra di area 1.170 anche nel prossimo futuro, vorrebbe dire che i mercati restano in tensione, timorosi, se non certi, di un deterioramento dei rapporti tra le due superpotenze e quindi anche di ripercussioni sul piano degli scambi commerciali globali e sui profitti di tutte le principali aziende. Solo il ritorno del dollaro/won al di sotto di area 1.140-1.145 sarebbe da interpretare come un segnale di ritrovata tranquillità a livello internazionale.
E il quadro grafico del Kospi?
Non è particolarmente brillante: i prezzi hanno, infatti, violato a ottobre 2018 la linea di tendenza crescente che parte dai minimi di fine 2008, praticamente coincidente con la media mobile a 200 settimane, indicatore che sintetizza la condizione del trend di lungo periodo, e dopo aver tentato in due occasioni, a febbraio e ad aprile, di riportarsi al di sopra di questo riferimento, a maggio hanno ripreso a scendere con decisione. Il rischio di una ripresa duratura del trend ribassista partito dai massimi di gennaio 2018 a 2.607 punti è molto elevato e troverebbe conferma in caso di discese al di sotto di area 2.000. Sul fronte opposto, sarebbe solo il superamento a 2.250 circa dei massimi del 2019 a far sperare in un miglioramento delle prospettive anche a medio termine, anche per i principali mercati azionari internazionali.
(Marco Biscella)