La guerra dei dazi sta continuando a creare problemi per l’economia globale e quindi indirettamente anche per i mercati finanziari. Alla fine forse qualcuno ne uscirà vincitore, per adesso l’impressione è che a rimetterci siano tutte le parti in gioco. Si moltiplicano infatti i segnali di rallentamento delle principali aree geografiche che fanno temere tempi bui all’orizzonte nonostante l’impegno delle banche centrali per evitare il peggio.



Negli ultimi giorni i segnali che la crescita economica, favorita da un periodo prolungato di tassi eccezionalmente bassi, si stia inceppando, si moltiplicano. Il dato forse più eclatante è che la produzione industriale cinese di luglio è cresciuta  “solo” del 4,8% (6,3% a giugno), al ritmo più lento degli ultimi diciassette anni. Le attese erano per un +6%. In calo a luglio anche l’aumento dei consumi, la cui crescita è stata del 7,6% dal +9,8% di giugno. Secondo quanto comunicato dalla China Association of Automobile Manufacturers, in luglio le vendite complessive di veicoli in Cina sono calate del 4,3% annuo a 1,81 milioni di unità, nel tredicesimo mese consecutivo di contrazione. La lettura segna un miglioramento rispetto alla flessione del 9,6% di giugno e a quella del 16,4% di maggio (declino più netto mai registrato,) ma nei primi sette mesi del 2019 la flessione è comunque stata dell’11,4% annuo, a 14,13 milioni di vetture.



Ma anche dalla Germania escono dati macro preoccupanti. L’istituto Zew ha infatti comunicato che l’indice di fiducia degli investitori istituzionali nei confronti dello stato di salute dell’economia della Germania ad agosto è sceso nettamente a -44,1 punti (valore più basso dal dicembre 2011) dai -24,5 di luglio, un calo molto superiore alle attese degli analisti fissate a -27,8. Recentemente anche l’ultimo sondaggio dell’Istituto Ifo aveva messo in evidenza timori di una contrazione della produzione nell’industria tedesca: l’indice relativo alle aspettative è sceso a -5,7 punti a luglio dai -2,1 di giugno, il livello minore dal novembre 2012.



Questa debacle si somma a quella della produzione industriale, che a giugno è scesa dell’1,5% da maggio e del 5,2% dallo stesso mese del 2018 (le attese erano per un calo dello 0,5%), un dato che si riflette nel Pil della Germania del secondo trimestre (per ora solo preliminare) che è rimasto invariato su base annua, contro il progresso dello 0,6% dei primi tre mesi del 2019 e il declino dello 0,3% stimato dagli economisti. Su base sequenziale la lettura è invece per una contrazione dello 0,1% contro la crescita dello 0,4% del primo trimestre, ma in linea con il consensus. Le previsioni ufficiali parlano ancora di un aumento del Pil per l’intero anno dello 0,5%, ma questo ottimismo è difficilmente condivisibile vista la condizione dei numeri di recente uscita.

Le difficoltà tedesche si riflettono ovviamente anche sul blocco dell’euro. Il Pil dell’eurozona (prima stima) nel secondo trimestre 2019 è cresciuto dello 0,2% rispetto al primo trimestre 2019, in linea con le attese e con il dato del primo trimestre 2019. Su base annua la crescita economica si è attestata all’1,1%. Al contrario la produzione industriale nell’eurozona nel mese di giugno ha registrato un andamento molto più deludente, facendo registrare una diminuzione dell’1,6% rispetto al mese precedente da +0,8% di maggio (dato rivisto da +0,9%). Il dato è peggiore rispetto alle attese (consensus -1,4%). Su base annua la produzione industriale è calata del 2,6%.

Gli scricchiolii si sentono non solo oltre il Reno, ma anche al di la della Manica: nel secondo trimestre 2019 il Pil del Regno Unito ha registrato una crescita dell’1,2% annuo, in rallentamento rispetto all’1,8% dei primi tre mesi (1,4% nel quarto trimestre 2018) e contro l’1,4% del consensus. Su base sequenziale l’economia britannica ha invece registrato un declino dello 0,2% contro il precedente progresso dello 0,5% (0,2% l’incremento degli ultimi tre mesi dello scorso anno) e la lettura invariata attesa dagli economisti, la prima contrazione per l’economia britannica dal quarto trimestre 2012.

Gli Stati Uniti di certo non sono solo spettatori in questa fase di rallentamento. Goldman Sachs ha peggiorato infatti le sue previsioni di crescita per l’economia Usa quest’anno a causa di un impatto più grande di quanto preventivato dai recenti sviluppi della guerra commerciale lanciata da Donald Trump contro Pechino. Gli economisti dell’istituto newyorkese hanno recentemente diffuso un outlook per il quarto trimestre segnato da una crescita del Pil dell’1,8% contro il 2,0% stimato in precedenza. L’impatto complessivo sul Pil dalle tensioni Usa-Cina è quindi indicato nello 0,6% con lo 0,2% dell’ultima fase, partita dall’annuncio del Presidente Usa dell’introduzione di nuovi dazi sulle merci made in China a partire da settembre. Goldman, oltre tutto, non prevede più che un accordo tra i due Paesi possa essere raggiunto prima delle presidenziali del novembre 2020.

Il dietrofront degli States sulla gestione dei rapporti con la Cina, se visto alla luce del quadro economico internazionale, ha più il sapore di una prudente ritirata che di una benevola apertura al dialogo, come erroneamente era invece stato interpretato inizialmente dai mercati. Nel corso della settimana infatti c’è stata la comunicazione dell’ufficio dello U.S. Trade Representative Robert Lighthizer del rinvio da inizio settembre al 15 dicembre per l’introduzione dei previsti nuovi dazi del 10% su 300 miliardi di merci made in China. Tra i prodotti coinvolti smartphone, pc, consolle per videogiochi, insomma, gli oggetti che vengono acquistati in grande quantità sotto le feste natalizie e che determinano con i loro volumi di vendita il risultato dei bilanci di molte grandi aziende Usa (si deve ricordare che i dazi applicati da una certa data vanno a influire sulle merci in partenza da quel giorno, non su quelle già in viaggio o arrivate, quindi i nuovi dazi del 15 dicembre diverrebbero di in realtà effettivi solo dopo qualche settimana, considerando il tempo di viaggio di molti dei prodotti incriminati).

Il segretario per il Commercio statunitense, Wilbur Ross, parlando ai microfoni di Cnbc, lo ha detto chiaramente: il posticipo dei dazi da settembre a dicembre non deve essere visto come una mano tesa a Pechino, ma è solo una misura in difesa dei consumatori e delle aziende americane in previsione dello shopping natalizio. Intanto il dialogo tra le parti procede a rilento, il ministero del Commercio di Pechino ha dichiarato che il vicepremier cinese Liu He ha parlato al telefono con Lightizer e con lo U.S. Secretary of the Treasury Steven Mnuchin e che i tre replicheranno il colloquio in due settimane, insomma si è passati da una guerra lampo a una guerra di trincea, in cui nessuno vuole fare vedere all’altro di avere paura delle conseguenze, che però, come è chiaro da quanto emerso finora, ci sono eccome.

Il segnale eclatante che il miracolo della crescita felice a tempo indeterminato potrebbe essere finito viene dall’andamento dei rendimenti sui bond. Negli Usa si è infatti materializzata per la prima volta dal 2007 l’inversione della curva dei rendimenti tra titoli di Stato a 10 e a 2 anni, con la scadenza più breve al di sopra dell’1,6% e quella più lontana al di sotto di questa soglia. E attenzione, di inversione della curva si può parlare anche per i titoli inglesi, in questo caso per la prima volta dal 2008. Per quale motivo un investitore dovrebbe essere disposto ad accettare un rendimento più basso per una scadenza più lontana, dove quindi il costo dell’incertezza derivante dal fattore tempo è maggiore, se non perché ritiene che nel frattempo possa esserci una crisi economica tale da mutare radicalmente l’andamento dei rendimenti futuri? Negli ultimi decenni e per le ultime 7 recessioni l’inversione della curva per le scadenze 2 e 10 anni ha sempre funzionato come segnale anticipatore di un’entrata in una fase di diminuzione del Pil, e ai mercati questa capacità di previsione è ben nota, tanto che gli investitori si sono affrettati a scaricare gli asset più rischiosi, come le azioni, salendo su quelli ritenuti più sicuri, come appunto i bond e ad esempio l’oro.

Questa inversione non è del resto un fulmine a ciel sereno. Lo spread tra la scadenza a 3 mesi e quella a 10 anni, altro indicatore della probabilità di una recessione seguito dagli economisti, è invertito ormai da marzo, mentre l’indicatore della Fed di New York sulle probabilità di una contrazione dell’economia è ormai al di sopra del 30% (30,5% il dato di luglio pubblicato a inizio agosto), una delle letture più alte dalla “Great Recession”.

Gli occhi sono puntati ora verso le prossime riunioni delle banche centrali, quella della Bce il 12 settembre e quella della Fed il 17 e 18 settembre, ma c’è un elemento che mette un freno alle speranze di chi vorrebbe ulteriori interventi aggressivi di riduzione del costo del denaro, soprattutto da parte della banca americana. L’inflazione a luglio negli States è risultata in crescita dello 0,3% su base mensile, come da attese, ma superiore al dato di giugno che si era fermato a un +0,1%. Anche la variazione su base annua, dell’1,8%, ha battuto il dato di giugno, fermo al +1,6%, e in questo caso anche le attese di un +1,7%. Il dato core è del +2,2%, oltre il consensus di +2,1%, e tocca il valore più alto di quest’anno. Insomma, chi spera che la Fed possa togliere le castagne dal fuoco ancora una volta potrebbe rimanere deluso, Powell infatti rischia di avere la mani legate se effettivamente la crescita dei prezzi rimarrà elevata anche nei prossimi mesi.

Un rinnovato interesse è stato dedicato negli ultimi tempi all’oro, che dopo una prolungata fase di lateralità (la retta di regressione lineare, rappresentazione del trend statistico del mercato, calcolata per il periodo dai massimi di luglio 2016 ai minimi di maggio 2019 e’ praticamente orizzontale) ha intrapreso con decisione la strada del rialzo, fiutando con un certo anticipo il mutamento di sentiment relativo al mercato azionario. Sul grafico del future dell’oro quotato sul Comex si è disegnato dal minimo del gennaio 2014 un ampio testa spalle rialzista, una figura formata da due minimi allineati su livelli simili (quello di inizio 2014 e quello di agosto 2018 e da uno centrale posto più in basso, quello della fine del 2015). La figura è stata completata a metà giugno con la rottura in area 1360 dollari della linea che unisce i massimi di marzo 2014 e quelli di luglio 2016, la “neckline” del testa spalle. Caratteristica di questo tipo di figure è quella di indicare un probabile obiettivo raggiungibile dopo il loro completamento, un target calcolato proiettando l’ampiezza della figura stessa dal punto di rottura della linea di conferma. In questo caso il target si pone a 1700 dollari circa, bene al di sopra quindi dei livelli massimi raggiunti finora. È lecito pensare che se il trend rialzista dell’oro continuerà almeno fino ai livelli indicati allora anche il trend ribassista dei mercati azionari potrà proseguire per un tempo analogo.

Interessante in quest’ottica anche l’andamento dell’Etf Xtrackers Ii Glob Govt Bond Ucits Etf 5c (XG7S), avente come riferimento l’indice Ftse World Government Bond Developed Markets Unhedged. L’Etf ha superato a inizio agosto i record di luglio 2016 spingendosi fino quasi sulla soglia dei 260 punti. Il metodo delle proiezioni di Elliott permette di ipotizzare obiettivi fino in area 275, quindi distanti dai prezzi attuali, raggiungibili magari dopo una fase di temporaneo ripiegamento a rivedere dall’alto i precedenti record.

Situazione simile per l’Ishares Eu Aggregate Bond Ucits Etf Dist (IEAG), avente come benchmark il Barclays Euro Aggregate Bond Total Return Index. L’Etf ha superato a fine luglio, dopo un tentativo a vuoto nella prima parte del mese, i massimi del 2016 mettendo poi a segno una decisa accelerazione al rialzo. L’impressione è che la tendenza possa continuare almeno fino ai 137 euro circa, un target che i prezzi potrebbero impiegare diverse settimane prima di raggiungere.

Oro e titoli di stato sembrano quindi avere intrapreso una tendenza rialzista destinata a proseguire, e se questa ipotesi dovesse verificarsi corretta potrebbe implicare un proseguimento verso il basso del trend della borsa. Una conferma in questo senso verrebbe dal proseguimento della fase ribassista dell’indice S&P 500 Banks. Il comparto bancario è tra quelli che sta soffrendo maggiormente per le prospettive di un rallentamento della crescita economica, già costretto a navigare da tempo nelle acque dei tassi bassi, una condizione che non favorisce certo la profittabilità della attività tipica delle banche, impiegare i soldi affidati loro dai risparmiatori. Sul grafico di questo indice si è sviluppata a partire da fine aprile una potenziale figura a “doppio massimo”, elemento che potrebbe anticipare un’inversione ribassista. La violazione dei minimi di giugno a 299 circa completerebbe il doppio massimo prospettando il ritorno almeno sui minimi di dicembre a 259,55 circa.

Per rimettere l’indice in una carreggiata di rialzo servirebbe almeno la rottura a 318 punti della media mobile a 100 giorni (l’indicatore è stato superato nelle ultime tre occasioni con un gap a conferma della sua buona capacità di descrivere lo stato della tendenza), anche se solo il superamento dei massimi di luglio a 389 punti circa farebbe andare definitivamente in soffitta il timore di un proseguimento della fase di debolezza non solo per il comparto bancario, ma per la borsa nel suo complesso.

Che le banche siano un indicatore, spesso volutamente ignorato, quasi che le loro difficoltà non fossero lo specchio delle difficoltà dell’intero sistema economico, della direzione che potrà prendere la borsa lo dice anche il comportamento di alcuni titoli di istituti europei. In particolare, per tornare alla crisi della Germania, sono sintomatici l’andamento di Commerzbank, che recentemente ha toccato un nuovo minimo storico sotto i 5 euro e che in un anno ha visto dimezzare il proprio valore, e quello di Deutsche Bank, che a dicembre del 2017 quotava ancora oltre i 17 euro e che recentemente è scivolata in area 6 euro, perdendo il 65% circa.