Tutti i principali indici azionari globali ieri hanno chiuso in negativo nonostante durante il corso della giornata i timori per un aggravamento della crisi ucraina siano in parte rientrati. L’Ucraina non è l’unico fronte aperto: Siria, Yemen, Afghanistan, Iran, tra gli altri, continuano a essere fronti caldi. La crisi ucraina comporta rischi per l’Occidente e la sua economia molto più consistenti. Il timore non è tanto il conflitto, ma gli effetti che potrebbe avere sulle relazioni economiche che “l’Occidente” e in particolare l’Europa intrattengono con la Russia.
Le sanzioni potrebbero compromettere fortemente il principale fornitore energetico dell’Europa e mettere in crisi tutto il sistema industriale europeo oltre che lo stile di vita di famiglie e consumatori. È un aspetto che per quanto evidente spesso viene dimenticato mentre si evidenziano invece i danni per l’economia russa. L’Europa non è attrezzata per sostituire il gas russo con cui si scaldano le case e si produce l’elettricità. Se davvero scoppiasse la guerra in Ucraina quello che abbiamo visto negli ultimi mesi in termini di “caro bollette” sarebbe solo un antipasto.
È impossibile incorporare perfettamente i rischi di un’escalation che rimane imprevedibile, ma a nessuno sfugge che una parte importante dell’economia globale sarebbe travolta da ondate di volatilità politica ed economica. La crisi economica che ne scaturirebbe metterebbe sotto stress l’infrastruttura europea che è lungi dall’essere completata aprendo tensioni all’interno dell’Europa tra Stati membri e tra Stati membri e Banca centrale; questo anche senza ipotizzare un intervento militare diretto che si porterebbe dietro un flusso di migranti potenzialmente destabilizzante. Basta che i rapporti geopolitici si incrinino al punto tale di tagliare le forniture di gas dell’Europa. Il rafforzamento del dollaro degli ultimi giorni è qualcosa di più della solita rincorsa ai beni rifugio e indica chiaramente chi pagherebbe il prezzo più alto.
La crisi ucraina ieri ha nascosto un secondo elemento di volatilità. Il Presidente della Federal Reserve di St. Louis, Bullard, ieri ha dichiarato che “la nostra credibilità è in gioco e dobbiamo reagire ai dati”. Bullard ha anche dichiarato che la Fed dovrebbe “anticipare” la fine delle misure accomodanti e ha ribadito l’esigenza di un rialzo di 100 punti base prima del primo luglio. La guerra che bisogna combattere, in questo caso, è quella all’inflazione che è ai massimi dall’inizio degli anni ’80. Anche in questo caso è una guerra che avrebbe effetti più consistenti in Europa per l’alto livello di debito di alcuni Stati europei, per i difetti di costruzione dell’euro e perché l’economia europea è più fragile in uno scenario di guerra commerciale.
Il percorso di rialzo dei tassi che viene discusso in questi giorni avviene in un’economia ancora provata dalla pandemia e alla vigilia di un rallentamento della crescita globale. Il rischio, insomma, non è quello di dover subire cali di borsa o un po’ di volatilità, ma quello di provocare tensioni che molti Paesi e molti settori non sono in grado di subire e che, potenzialmente, aprono scenari davvero difficili da leggere. L’inflazione di questi mesi è frutto anche di fattori che sono completamente esogeni rispetto alle politiche delle banche centrali: le tensioni politiche, le guerre commerciali e la transizione green.
L’Europa si augura meno di tutti una guerra in Ucraina, ma è particolarmente preoccupata anche da una fase di rialzo tassi fatta a ritmi che non può sostenere. Questo spiega molto dell’atteggiamento e delle dichiarazioni della Bce negli ultimi mesi. Siamo oltre il dibattito tra cicale e formiche e ben oltre le pur giustissime perplessità per gli effetti distorsivi e per certi versi nefasti di anni di politiche monetarie espansive oltre il necessario.
Le valutazioni si fanno sulla base di quello che c’è ed è già successo non di quello che ci sarebbe dovuto essere. Quello che c’è sono tensioni geopolitiche che producono inflazione e il rallentamento della crescita globale. Due condizioni che fanno male all’Europa molto più che agli Stati Uniti.
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