Le ipotesi di dimissioni di Macron, circolate ieri mattina, hanno danno vita a una giornata di volatilità per le obbligazioni governative europee. La notizia, partita da una radio francese, e poi rilanciata dai principali media finanziari, dava conto di alcune discussioni nell’entourage del Presidente transalpino secondo cui, nell’eventualità di un’altra sconfitta alle prossime elezioni per l’Assemblea nazionale, Macron si sarebbe dimesso. La smentita arrivata in un’intervista a Le Figaro non ha calmato gli investitori; solo alla fine della giornata sono rientrati i cali delle principali obbligazioni europee, mentre il decennale francese ha chiuso comunque in negativo e lo spread Francia/Germania è arrivato vicino ai massimi dal 2013.
Gli investitori forse non sono convinti delle dichiarazioni di Macron oppure pensano che lo scenario politico che emergerebbe in un’ipotetica vittoria di Marine Le Pen non sia sostenibile e sia invece fonte di instabilità politica. La certezza è che la smentita non ha spento la speculazione sulle obbligazioni transalpine. Ieri la stampa finanziaria pubblicava articoli sulle preoccupazioni degli investitori per le politiche fiscali francesi. I timori verterebbero sulla traiettoria del debito pubblico e su quella del deficit che nel 2024 dovrebbe vedere solo un miglioramento minimale rispetto a quello del 2023 (5,4% del Pil). Si potrebbe facilmente costruire uno scenario in cui in una Francia a trazione Le Pen si apra una fase di conflittualità con l’Europa sugli obiettivi di riduzione del deficit e forse su qualche altro tema particolarmente sensibile a Bruxelles come l’immigrazione; questa, a sua volta, vista ufficialmente come necessaria per aggiungere lavoratori ma utilissima come forza deflattiva in un mondo strutturalmente inflattivo.
Le attenzioni si concentrano sulla Francia ma “l’elefante nella stanza” non è in Europa, ma dall’altra parte dell’Atlantico. Gli amministratori delegati delle principali società finanziarie americane, da Fink di Blackrock e Dimon di Jp Morgan in giù, negli ultimi mesi hanno messo a tema spesso e volentieri l’insostenibile traiettoria fiscale degli Stati Uniti. Washington ha un deficit fuori scala e aumenta il debito di 500 miliardi di dollari a trimestre. Il debito su Pil americano è più alto di quello francese e lo stesso vale per il deficit. Ieri proprio Bloomberg avvisava i propri lettori che la liquidità sulle obbligazioni americane non è mai stata così bassa dai mesi di Lehman Brothers. La ragione è l’incertezza sull’andamento dell’inflazione perché dopo “l’errore” di politica monetaria del 2021 è difficile fidarsi ancora delle stime di inflazione. Uno dei peggiori investimenti che si potesse fare nel 2020 è stato comprare obbligazioni americane a dieci anni con un rendimento sotto l’1% per poi trovarsi l’inflazione sopra al 4%, con picchi al 9% per due anni. Il quadro politico americano, oltretutto, non appare né stabile né tranquillo.
Mentre le obbligazioni europee scendevano quelle americane salivano. Il rischio geopolitico o politico europeo finora non è stato prezzato. Nelle ultime settimane si è discusso più volte della possibilità che l’Europa potesse mandare truppe in Ucraina; il quadro energetico europeo rimane fragile al punto che circolano ipotesi secondo cui, proprio in questi giorni, l’Europa stia lavorando per prolungare l’accordo che tiene in vita i flussi di gas russi che passano per l’Ucraina. Se gli investitori cominciassero a prezzare rischi geopolitici per l’Europa, con un conflitto più caldo, o politici, con fratture dentro l’Europa, per esempio tra Francia e Bruxelles, allora i dollari e i titoli americani apparirebbero come un approdo migliore. Non tanto per un miglioramento dei conti pubblici di Washington, su cui è lecito dubitare, quanto perché l’Europa diventerebbe “ininvestibile” com’è ovvio per un Paese in guerra o per un’unione a monetaria messa in crisi da tensioni tra uno dei due Paesi che ne costituisce l’asse e il suo centro.
La crisi europea, come si è intravisto ieri sui mercati europei, è un aiuto insperato per i disastratissimi conti americani, tanto più nell’attuale quadro di deglobalizzazione.
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