C’è chi, senza timore di esagerare, ha parlato di un mese trionfale per i mercati azionari che hanno archiviato novembre con un progresso superiore al 7-8%. Non fa eccezione Milano che dal primo gennaio guadagna più del 25%. L’indice di Piazza Affari è a un passo da quota 30.000, sui livelli del 2008, prima che la crisi dei subprime e la bufera sulla Grecia provocassero un tonfo durato 15 anni.



E chi ha dimenticato la frenata del credito e la voragine del debito pubblico scandita dall’ascesa dello spread, più minaccioso di un’alluvione? Scene di panico che fino a poche settimane fa sembravano destinate a tornar d’attualità, complici la possibile bocciatura del rating italiano, l’impennata dei tassi e la fine del Quantitative easing che sostenuto i conti dell’Italia ai tempi di Draghi e oltre.



Al contrario, i rendimenti dei titoli di Stato dai livelli della seconda metà di ottobre sono crollati ai minimi da mesi. Sulla scia dei T-bond Usa, i Btp sono scesi di un punto abbondante attorno al 4,24%, cosa che consentirà un risparmio per le Casse del Tesoro in un finale d’anno ricco di cedole da versare ai risparmiatori. Un finale in crescendo garantito dalla discesa dell’inflazione: un ribasso spettacolare. Meglio di qualsiasi previsione. Un bel regalo di Natale per il ministro dell’Economia Giorgetti che, dal canto suo, intende approfittare del ritorno alla propensione al rischio: dopo aver collocato con successo una prima tranche di titoli Mps, il titolare del Tesoro guarda alla cessione di un pacchetto di Eni e di Poste Italiane, beninteso senza mettere in discussione la leadership pubblica.



I mercati, una volta tanto, sembrano aver scelto di premiare la linea delle Banche centrali, decise a combattere l’inflazione senza cedere alla tentazione di abbassare il costo del denaro troppo e troppo presto come consigliavano di fare politici e imprenditori abituati a dipendere dagli aiuti di Stato. Ma in realtà la linea adottata dalla Federal Reserve e dalla Bce è stata imposta dal mercato piuttosto che dalla volontà dei banchieri: ovunque, non solo in Italia, a dettare i rendimenti sono stati i creditori piuttosto che i ministri, come dimostrano le ultime stentate aste del Tesoro americano che ha fatto fatica a collocare i decennali al 4,30%, comunque un risultato record. Specie se si guarda al contesto in cui è maturato l’allineamento quasi ottimale dei mercati: non solo azioni od obbligazioni, ma anche petrolio finora sotto controllo assieme alle altre materie prime, non ultimo l’oro in forte ripresa con il calo dei rendimenti dei bond.

Andrà così anche l’anno prossimo? Ad alimentare le speranze è la tenuta dimostrata dal quadro geopolitico che, dopo lo stress delle epidemie, tiene, nonostante due conflitti, Ucraina e Gaza, che più volte hanno rischiato di trasformarsi da crisi regionale a conflitto globale. A spegnere gli incendi potrebbero essere i nuovi protagonisti della scena geopolitica, a partire da India e Brasile. Ma un ruolo rilevante potrebbe averlo l’Arabia Saudita, disposta a favorire investimenti nell’Iran, stremato dalla crisi, in cambio di un atteggiamento più morbido sullo scacchiere nel Medio Oriente. Ma la partita decisiva riguarda la Cina. La ripresa del dialogo economico e tecnologico tra Pechino e l’America potrebbe essere il vero driver di un percorso tanto virtuoso quanto complicato in un anno elettorale Usa. Ma è probabilmente lì che si giocano le speranze per il futuro. Comunque condizionato dalla crescita impetuosa dell’Intelligenza artificiale, la vera variabile dell’anno che verrà.

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