Alcuni mesi fa fu il Financial Times a lanciare l’allarme coniando il termine «The Great Disconnect», ossia la grande sfasatura tra mercati finanziari ed economia reale. Secondo i dati del Fondo monetario internazionale, nel 2020 il Pil mondiale ha subito una contrazione del 4,5% circa (quello dell’Italia quasi del 13%), ma i mercati finanziari hanno chiuso con aumenti significativi della valorizzazione delle loro quotazioni: negli Stati Unti, il cui Pil si è contratto del 5% circa, l’indice Standard & Poor 500 riportava aumento complessivo di oltre il 14% e il Nasdaq di oltre il 40%.



Dal 1990 il valore delle azioni nel mercato degli Stati Uniti è aumentato di ben sette volte, mentre il Pil Usa è raddoppiato. Secondo il quotidiano di Londra, prima o poi ci sarebbe stato un riassetto e allora sarebbero stati tempi duri per tutti. 

Allora, il contesto (anche senza tener conto del Covid) sembrava molto, molto preoccupante. Il numero 1-2021 dell’American Economic Journal: Macroeconomics, l’autorevole trimestrale dell’American Economic Association più direttamente centrato su temi e problemi di macro-economia, includeva tre saggi raggelanti sull’eventuale ripresa economica e sul futuro dell’economia internazionale. William Nordhaus si interrogava sulle «possibilità», non sulle «probabilità» di crescita economica. Ricordava che già Malthus aveva ipotizzato una stagnazione secolare e si chiedeva se la digitalizzazione è un’innovazione tecnologica analoga a quella che fu l’industrializzazione. Non dava una risposta netta, ma anzi aggiungeva altri interrogativi: la crescita economica può riprendere in un mondo in cui si stanno esaurendo le risorse naturali, la pressione demografica comporta una riduzione degli standard di vita, l’invecchiamento della popolazione provoca una riduzione dell’inventività, le emissioni di CO2 producono cambiamenti catastrofici del clima, e il «magazzino delle grandi invenzioni» pare vuoto? 



Ufuk Akcigit and Sina T. Ates analizzavano le dieci principali determinanti del declino del dinamismo imprenditoriale e le riassumevano in riduzione della velocità di trasmissione delle innovazioni di processo e di prodotto tra industrie all’avanguardia e industrie di retroguardia. Erik Brynjolfsson, Daniel Rock e Chad Syverson esaminavano la curva della produttività e concludeva che le tecniche statistiche disponibili (specialmente quelle della contabilità economica nazionale) non consentono di misurare a pieno i benefici sulla produttività di «general purpose technologies» come la digitalizzazione e l’intelligenza artificiale; propongono nuove tecniche di misurazione che, se applicate in modo consistente e rigoroso, potrebbero mostrare un futuro meno oscuro. Tra i tre saggi sulla crescita, il terzo è il più moderatamente ottimista.



È in atto una ripresa in gran parte dei Paesi Ocse in gran misura generata da politiche di bilancio espansive (sia per contrastare la recessione, sia per portar sollievo alle famiglie e alle imprese più colpite dalla pandemia), ma «The Great Disconnect» pare aumentata e continua a preoccupare. Circa una settimana fa è stato tenuto un simposio internazionale sul tema: vi partecipava un solo italiano, Lorenzo Codogno, ora alla London School of Economics e a lungo Direttore generale per l’Analisi e la Ricerca Economica del Dipartimento del Tesoro del ministero dell’Economia e delle Finanze. Si erano dati convegno i maggiori esperti americani ed europei. Gli atti sono disponibili. Il clima non era ottimista. In estrema sintesi, si teme lo sgonfiamento di una bolla finanziaria: le differenze sono sui tempi e sui modi.

In breve. il rapporto tra valorizzazione media dell’azionario negli Usa e guadagni annuali aggiustati per tenere conto del ciclo economico è 37. Le uniche due volte in cui ha superato quota 30 è stato nel 1929 e nel 2000. Sappiamo come avvenne il «riaggiustamento» nel 1929. Nel 2000, eravamo divenuti più esperti: ci fu un primo riassetto nel 2001-2002 (riguardo essenzialmente le quotazioni di quella che allora veniva chiamata la «net economy»), seguito dalla crisi del mercato dei mutui edilizi del 2008 che provocò un vero tracollo di molti settori e dell’azionario nel suo complesso.

Siamo alla vigilia di qualcosa di simile? A mio avviso, mercati finanziari ed economie reali si muovono secondo logiche leggermente differenti. Lo scorso aprile, su queste pagine, ho ricordato che oltre al fiume di finanza pubblica versato sulle economie, nel 2020, durante la pandemia (peraltro non ancora terminata), nei conti correnti e nei fondi delle famiglie a reddito medio e medio alto dei Paesi Ocse si sono accumulati circa 3.000 miliardi di risparmi aggiuntivi (quasi 200 solo in Italia) sia per finalità precauzionali, sia per spese non essenziali (abbigliamento, spettacoli, ristoranti, viaggi, vacanze) non effettuate durante i vari lockdown.

Questo enorme flusso di risparmi aggiuntivi non è rimasto fermo nei conti correnti. Ha avuto difficoltà ad andare verso un impiego consueto delle famiglie: l’immobiliare. Da un lato, il decremento delle nascite non offre grandi prospettive nel lungo periodo all’edilizia residenziale. Da un altro, ci sono molte incertezze sugli impieghi in acquisti di uffici: si tornerà a lavoro in presenza al 100% dopo la pandemia o si manterranno abitudini prese durante i lockdown? 

L’obbligazionario in titoli di stato è poco allettante a ragione dei bassissimi rendimenti e del timore di ristrutturazioni, prima o poi, dei debiti delle pubbliche amministrazioni. Ci si è riversati, quindi, verso l’azionario, prendendo anche strade avventurose. Ad esempio, una piattaforma di trading on line dal curioso nome di Robinhood creata nel 2000 ha aperto conti di più di dieci milioni di clienti nei primi sei mesi del 2021.

Siamo, però, diventati più scaltri, spero. Piuttosto che l’esplosione di una bolla, credo sia da prevedersi un graduale ritiro dagli impieghi più avventurosi e un ritorno alla normalità.

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