Settimana scorsa si è realizzato un movimento che a molti investitori domestici potrebbe essere passato inosservato: il deciso rialzo dei rendimenti dei titoli di Stato americani, in particolare per la scadenza a 10 anni. Il movimento di questo tasso, 30 punti base in una sola settimana, è stato il più ampio dal novembre 2016 (32 punti base per il trentennale).



L’andamento dei tassi è inverso rispetto a quello dei prezzi nel caso delle obbligazioni: un rialzo dei rendimenti implica quindi una discesa dei prezzi, discesa che è il sintomo di un calo della domanda. Negli ultimi tempi infatti era stato l’aumento di domanda per le obbligazioni “sicure” statunitensi, a fronte di un aumentato rischio di recessione, a far salire i prezzi dei bond e a far scendere i rendimenti.



Appena Usa e Cina sono tornati a parlarsi e il rischio di un inasprimento delle tensioni sul commercio si è allontanato, i mercati si sono guardati intorno e hanno deciso che l’1,43% di rendimento dei decennali era veramente troppo striminzito, spostandosi nuovamente su strumenti, come le azioni, più rischiosi ma anche più remunerativi.

Il dato sulle vendite al dettaglio appena rilasciato dal Dipartimento del Commercio statunitense, che mostra per il mese di agosto un incremento della spesa dello 0,4% su base mensile (e del 4,1% su base annua), il doppio del +0,2% atteso, è servito a tranquillizzare gli operatori: finché i consumatori comprano, gli Usa potranno continuare a crescere.



Non importa se la parte più sostanziosa dell’incremento della spesa riguarda solo le auto, comparto senza il quale il dato sarebbe risultato invariato: l’importante è che l’economia non si fermi. Anche l’indice di sentiment dei consumatori dell’Università del Michigan ha mostrato per il mese di settembre un incremento, da 89,8 di agosto, minimo da tre anni, a 92 punti, così come il Bloomberg Consumer Comfort Index, a 63,2 punti nell’ultima settimana, vicino ai record del 2000. E visto che la Fed, come largamente atteso, ha tagliato i tassi di 25 punti base, l’ottimismo aumenterà ancora.
Anche il fatto che il CPI core sia salito meno delle attese è incoraggiante, dal momento che la Fed, per quanto pressata dalla Casa Bianca per tagliare i tassi, avrebbe le mani legate in presenza di un surriscaldamento dell’inflazione.

Il CPI (Consumer Price Index) di agosto è salito dello 0,1%, meno dello 0,3% di luglio, mentre la sua versione “core”, depurata di alimentari ed energia, è cresciuta dello 0,3% dallo 0,2% di luglio, valore che era anche quello atteso dal mercato. Il CPI core annualizzato è così risultato in aumento del 2,4%. Si tratta di valori abbastanza alti da mostrare che c’è vita nell’economia.

I mercati, a dire la verità, fino a poco tempo fa speravano in tre interventi della Fed, incluso quello di settembre, da qui a fine anno, quindi tagli fino allo 0,75%, mentre ora, dopo l’uscita dei nuovi dati macro migliori delle attese, lo scenario più probabile è di un solo altro intervento dopo quello di settembre.

La situazione, in sintesi, è questa: i rendimenti dei bond erano precipitati su minimi pluriennali sull’onda di timori di un’imminente fase recessiva causata dall’inasprirsi delle tensioni commerciali.

Gli ultimi dati macro non dipingono un quadro così negativo, forse di rallentamento, ma non di imminente recessione, e sia gli Usa sia la Cina hanno interesse a terminare quanto prima, magari con un accordo solo temporaneo, la guerra in corso (sperando che il motivo non sia quello di fare scoppiare una guerra vera e propria in qualche altra parte del mondo per risollevare la crescita: l’attacco dei guerriglieri yemeniti Houthi, alleati dell’Iran, agli impianti petroliferi di Abqaiq e Kharais, potrebbe essere una scintilla).

Gli investitori erano stati forse troppo pessimisti, facendo salire i bond e scendere le Borse più del dovuto, ora stanno riaggiustando le proprie aspettative. Chi ci dirà, tuttavia, se si tratta solo di un aggiustamento parziale o di una vera e propria inversione di scenario saranno i rendimenti, in particolare quelli sui titoli a 10 anni.

L’RSI a 14 settimane, a inizio settembre, era sceso su valori di ipervenduto che non si vedevano addirittura dall’ottobre del 1998 e che erano stati solo avvicinati a giugno 1995, a settembre 2002 e a dicembre 2008. Nel primo e nell’ultimo caso l’uscita dall’ipervenduto era stata contemporanea con la ripresa di una tendenza di rialzo duratura dei rendimenti, ma nel 1995 e nel 2002, dopo un temporaneo rimbalzo, i rendimenti erano scesi a far registrare nuovi minimi dopo alcuni mesi, nuovamente in moderato ipervenduto, prima di lasciare spazio a una ripresa più duratura.

Questo scenario sembra compatibile con tutte le previsioni, e sono tante (ma questo non vuol dire che non potranno essere smentite), di una fase recessiva, o di un forte rallentamento, per gli Usa nel 2020. Effettivamente dopo 10 anni abbondanti di crescita continua un’interruzione appare non solo probabile, ma anche salutare – un’economia molto elastica come quella statunitense ne guadagna in efficienza se ogni tanto deve affrontare una crisi -, ma è poco probabile che questa si manifesti già prima delle presidenziali, che si terranno a fine del 2020. Le tempistiche potrebbero tuttavia essere proprio queste, di un tonfo a fine 2020-inizio 2021, con i tassi dei decennali, quindi, al di sotto dei livelli toccati di recente, e con una fase intermedia di crescita dei rendimenti (e anche delle Borse, che andrebbero a fare nuovi massimi).

Fino a dove potrebbero salire nel frattempo i rendimenti? La retta di regressione lineare calcolata sul grafico dei 10 anni dai minimi di inizio 2012, praticamente orizzontale, è attualmente al 2,5% circa, di fatto coincidente con il 61,8% di ritracciamento del ribasso dal picco del 2018. Nel caso dei due anni la stessa retta, che qui ha invece un’inclinazione decisamente positiva, transita al 2,25% circa, sul 50% di ritracciamento del ribasso dai massimi del 2018.

Se i tassi saliranno nei prossimi mesi solo fino al 2,5% per quelli a 10 anni e al 2,25% per quelli a due anni, per poi avviare una nuova discesa, lo scenario del “double dip” apparirebbe decisamente credibile. La rottura immediata dei livelli indicati potrebbe invece significare che si sono create le condizioni per un proseguimento duraturo della fase espansiva dell’economia.

E le Borse? L’Msci World in dollari Usa, a differenza degli indici americani, ormai tutti a un passo dai massimi storici, è su valori molto elevati, ma ancora al di sotto della trend line che unisce il record di inizio 2018 con il top del luglio 2019, passante a 2.220 circa. Solo la rottura di quei livelli renderebbe possibile il ritorno sui record del 2018 in area 2.250, distanti quindi il 2% circa dai prezzi attuali, e solo il superamento anche di questa resistenza farebbe vacillare l’ipotesi secondo la quale il rialzo visto dai minimi di fine 2018 è solamente la porzione centrale di una struttura correttiva complessa, alla quale manca ancora una fase ribassista per completarsi.

Oltre i massimi del gennaio 2018 le oscillazioni dal minimo di febbraio 2018 si dimostrerebbero, invece, un “testa spalle di continuazione” (testa il minimo di dicembre 2018, sulla base del canale crescente che parte dai minimi del 2009, seconda spalla il minino di giugno 2019), figura che potrebbe sostenere rialzi almeno fino in area 2.650 punti (target del testa spalle calcolato come proiezione dell’ampiezza della figura dal punto di rottura).

Il raggiungimento di quei livelli potrebbe avvenire, ipotizzando un tasso di crescita del trend simile a quello visto nella prima parte del 2019, a giugno/luglio del 2020, data entro la quale potrebbero raggiungere le resistenze indicate anche i rendimenti sui titoli a 2 e 10 anni.

A rendere preoccupante il quadro grafico sarebbero, oltre al mancato superamento di 2.250, anche la violazione di 2.020-2.030. In quel caso l’ipotesi “testa spalle di continuazione” verrebbe meno, sostituita dal rischio di essere in presenza di un “doppio massimo”, figura ribassista, in preparazione. Difficilmente se l’Msci World dovesse avviare un ribasso già da valori vicini agli attuali, e in ogni caso senza superare i precedenti record, il rimbalzo dei tassi potrebbe proseguire.

Ma una situazione di questo tipo verrebbe abbondantemente anticipata da una spaccatura profonda tra Usa e Cina, o peggio da un aumento delle tensioni geopolitiche nelle aree calde del mondo. E a quel punto, non ci sarebbe certo bisogno di guardare i grafici per rendersene conto.