Tra i maggiori nemici delle Borse, oltre all’andamento presente e futuro, c’è l’incertezza. Pure operando in un contesto di economia in espansione per le aziende, soprattutto manifatturiere ma non solo, è essenziale poter pianificare la propria attività, in modo da produrre quanto basta per soddisfare i consumatori, siano questi interessati a beni o servizi, con il giusto timing. Quando l’incertezza aumenta le aziende tendono a rimanere sul fronte della prudenza, a limitare gli investimenti in personale e macchinari, e i consumatori tendono a non spendere più volentieri come quando la visibilità sul futuro è migliore.
I segnali in questo senso si stanno accumulando: la fiducia dei consumatori statunitensi è infatti risultata in calo a settembre. L’ indice di fiducia calcolato dal Conference Board è risultato di 125,1 punti, inferiore ai 134,2 punti di agosto (rivisti da 135,1 punti) e alle attese di 133 punti.
Una delle accuse che il premio Nobel per l’economia Paul Krugman muove alla politica di Donald Trump è proprio quella di essere troppo capricciosa e imprevedibile: il suo atteggiamento nei confronti dei partner commerciali degli Usa, Cina ed Europa in testa, sembra infatti essere dettato più dall’estemporaneità che da una seria pianificazione. E se da un lato è vero che questa imprevedibilità spiazza, e probabilmente spaventa anche, l’avversario, è altrettanto vero che ha lo stesso effetto su imprese e consumatori domestici. Secondo Krugman, c’è anche un effetto meno evidente del carattere tempestoso del presidente Usa, che però è altrettanto importante: la sua irruenza lo porta a cambiare spesso collaboratori e consiglieri, con il rischio che quelli che arrivano in sostituzione dei precedenti siano una seconda scelta, magari un po’ meno capaci.
Krugman ritiene anche che sia proprio l’incertezza alla base dell’inversione della curva dei rendimenti: gli operatori sentono puzza di guai per il futuro e ritengono che il rischio di una recessione sia ormai nell’aria, ipotizzano quindi che i rendimenti in futuro, proprio a causa del rallentamento dell’economia, saranno più bassi di adesso, e iniziano fin d’ora ad adeguare i valori di mercato a queste aspettative.
Alle critiche di Krugman si sono aggiunte quelle di un altro premio Nobel, Joseph Stiglitz, secondo il quale l’imprevedibilità della politica economica Usa è alla base del rallentamento della crescita non solo americana, ma anche globale. Stiglitz sottolinea come gli interventi attuali della Fed sui tassi di interesse difficilmente potranno avere effetti rilevanti per cercare di far ripartire il ciclo economico con una maggiore velocità di crescita: dal 2007 al 2008 i tassi erano scesi del 5,25% senza impedire lo scoppio della grave crisi di quel periodo; difficilmente interventi dello 0,25%/0,50% potrebbero ottenere risultati migliori adesso.
Ma gli Stati Uniti hanno un disperato bisogno di crescere a ritmi sostenuti, dal momento che le politiche fiscali degli ultimi anni hanno gravato sul debito americano per circa 2mila miliardi di dollari, facendo aumentare in modo preoccupante il suo valore rispetto al Pil, ma soprattutto la sua traiettoria: esistono previsioni di un debito al 150% del Pil già nei prossimi decenni. Probabilmente tutto questo Trump lo sa e sa bene che la sua rielezione il prossimo anno dipenderà dall’andamento dell’economia. Portare a casa un accordo con la Cina avrebbe probabilmente un notevole impatto mediatico, ma se gli effetti pratici fossero limitati, come è probabile se le parti arrivassero alla firma solo per salvare le apparenze e non rivelarsi deboli davanti ai loro elettori/cittadini, sarebbero poi necessari ulteriori interventi.
E nel caso degli Usa, proprio perché tante cartucce sono già state sparate, inutilmente secondo alcuni, negli ultimi due-tre anni grazie alle concessioni fiscali di Trump e monetarie della Fed, diventerebbe difficile inventarsi qualche cosa di nuovo per sostenere almeno i consumi, notoriamente il motore dell’economia Usa, fino alla fine del 2020.
Ma possibile che ci sia ancora chi continua a temere un forte rallentamento dell’economia Usa, se non una recessione? L’indice Pmi manifatturiero di settembre si è infatti attestato a 51, sopra le attese di 50,4 e del dato precedente di 50,3, mentre il Pmi composito, che comprende anche i servizi, è salito a 51 punti dai 50,7 precedenti. Se si va a scavare, però, qualche incongruenza la si trova: ad esempio, la componente del lavoro dell’indice Pmi dei servizi, comparto che rappresenta i due terzi dell’attività economica Usa, ha fatto registrare la sua prima contrazione da quasi un decennio. Il valore di questa componente dell’indice dei servizi è infatti scesa a settembre a 49,1 punti dai 50,4 di agosto, la prima contrazione dal dicembre 2009.
La componente occupazionale del comparto fa il paio con quella degli ordinativi, anche quelli in rallentamento, con il minore incremento dall’inizio della statistica nel 2009. Del resto, l’intero Pmi dei servizi è sì salito a 50,9 punti da 50,7, ma si è fermato al di sotto delle stime di 51,5. Insomma, l’economia statunitense resta più solida di quella europea, ma anche da quella parte dell’Atlantico si notano elementi di debolezza superiori a quelli immaginati a inizio anno.
Con questo andamento del Pmi è probabile che la crescita dei non-farm payroll scenda al di sotto della soglia psicologica delle 100mila unità. La Wto (World Trade Organization), ha calcolato che il commercio globale, inclusi servizi, trasporti e comparto finanziario, si è contratto di 5 punti a giugno su base annua, scendendo a 98,4, al di sotto del valore medio di lungo termine di 100. L’International Air Transport Association ha calcolato un calo a settembre per il nono mese consecutivo (la “guerra dei dazi” è iniziata circa un anno e mezzo fa) della domanda di voli passeggeri e merci.
E’ quindi evidente che l’effetto dei maggiori dazi, che inizialmente si era limitato al comparto manifatturiero, che continua a rallentare, sta lentamente interessando anche quello dei servizi.
In queste condizioni poco importa che la Fed vada a tagliare ancora i tassi, il problema è diventato di fiducia nel futuro e presto potrebbe impattare con decisione anche sul reddito dei consumatori, chiudendo il cerchio e iniziando a manifestarsi anche sui dati macro più seguiti.
A quel punto la Borsa non potrebbe fingere di ignorare i segnali che arrivano dall’economia e rischierebbe una brusca ritirata, eventualità che impatterebbe sulle tasche dei privati così come su quelle degli investitori istituzionali. Tutto questo però lo sa bene anche Trump, ecco perché è possibile che già a inizio ottobre si arrivi a una clamorosa svolta sui negoziati con la Cina.
Se il presidente Usa saprà galvanizzare i mercati azionari, che del resto rimangono vicini ai record di tutti i tempi, potrà continuare a presentarsi come l’uomo del miracolo economico, della fase di espansione più duratura della storia recente. In caso contrario, nessuno avrebbe di che gioire, nemmeno i suoi detrattori, che si troverebbero a dover affrontare una crisi con tutte le armi tradizionali spuntate: su quali leve potrebbero infatti agire le banche centrali per stimolare l’economia ora che i tassi di interesse sono su valori eccezionalmente bassi in quasi tutto il mondo?
Per adesso le Borse, pur dimostrando un certo nervosismo, restano in vista dei massimi storici, ma qualche dissonanza di comportamento tra i diversi indici inizia a evidenziarsi.
Il Russell 2000, ad esempio, paniere che contiene le “small cap” del mercato Usa, a differenza di S&P500 e Nasdaq non è riuscito a migliorarsi dopo il raggiungimento del massimo toccato a inizio maggio a 1.618 punti circa. Nei mesi successivi l’indice Russell 2000 ha intrapreso una fase laterale e anche se nella prima parte di settembre si è verificato un mini-rally, in realtà ancora una volta il rimbalzo si è limitato a riportarsi nella parte alta della fascia di oscillazione (per gli amanti dei grafici il picco del 13-16 settembre si colloca sulla trend line ribassista che unisce il massimo di inizio maggio con quello di fine luglio, resistenza sulla quale è comparso un bell’esempio di “shooting star”, elemento che conferma con la sua presenza l’esistenza di una forte resistenza, molto simile a quello disegnato il 25 febbraio).
Se il Russell non dovesse riuscire a superare area 1.620 e scendesse invece al di sotto dei 1.450 punti, le speranze che la fase laterale citata sia solo una pausa del trend rialzista precedente verrebbero accantonate ed emergerebbe con forza uno scenario ribassista, che proporrebbe il ritorno sui minimi di dicembre a 1.267 punti circa.
L’attenzione data alle small cap è giustificata dal fatto che questo comparto è più sensibile all’andamento dell’economia domestica rispetto alle large cap dell’S&P 500. Il 30% circa degli utili delle società a piccola capitalizzazione deriva infatti dal comparto immobiliare e dalle costruzioni (sensibile all’andamento dei tassi a breve sui quali sono parametrati i mutui), contro il 12% circa delle large cap. Se la rinnovata politica accomodante della Fed avesse successo, sarebbe quindi probabilmente il Russell 2000, più dell’S&P 500, a evidenziarne i benefici.
Anche l’andamento dei rendimenti sui titoli di Stato decennali Usa solleva qualche perplessità sul sentiment delle Borse. Il mercato azionario ha associato negli ultimi mesi le oscillazioni di questo valore alla probabilità che l’economia Usa entrasse in recessione e ha quindi accolto con favore il rimbalzo dei rendimenti visto nella prima parte del mese di settembre. Questa reazione si è però interrotta bruscamente il 13 settembre sull’1,9% circa, da allora i rendimenti sono tornati a scendere puntando con decisione verso i minimi di inizio mese all’1,43% circa. Solo il superamento all’1,95% della media mobile esponenziale a 100 sedute sarebbe un segnale convincente in favore dell’avvio di una fase duratura di crescita dei rendimenti sui titoli del Tesoro Usa a 10 anni, un segnale che le Borse accoglierebbero con favore. Fino a quel momento il calo dei rendimenti e l’aumento dei prezzi dei bond americani saranno invece un’evidenza, difficile da ignorare, di allontanamento dagli asset più rischiosi in favore di acquisti di titoli considerati sicuri, anche a costo di accettare rendimenti veramente molto bassi, vicini ai minimi storici dell’1,336%.