Sul fatto che la guerra commerciale tra Usa e Cina possa fare seri danni all’economia globale ormai non restano molti dubbi. Il Fondo monetario internazionale, a fine luglio, aveva rivisto al ribasso le attese per la crescita del Pil mondiale per il 2019 al 3,2% dal 3,3% dello scorso aprile. Per gli economisti del Fondo a pesare sulla crescita sono le tensioni causate dalle guerre tariffarie, oltre all’incertezza sulla Brexit.



Lo stesso Fmi, però, si dimostrava più ottimista per il 2020, ma a fine luglio i rapporti tra Usa e Cina non erano ancora arrivati ai ferri corti come accaduto un mese dopo, con il botta e risposta tra Trump e Xi sull’applicazione di nuovi dazi già a partire da inizio settembre. Per il 2020, infatti, le attese ipotizzavano un’accelerazione al 3,5%, grazie all’apporto dei mercati emergenti e dei Paesi in via di sviluppo, che dovrebbero raggiungere, in base alle stime, una crescita del 4,7% del loro Pil.



L’intervento di Moody’s del 23 agosto è stata però una doccia fredda su queste speranze di poter tornare alla crescita già nel prossimo anno. Moody’s ha infatti comunicato di avere ridotto le stime di aumento del Pil per il 2019-2020 di 16 Paesi dell’area Asia-Pacifico a causa dell’indebolimento del commercio e degli investimenti, nonostante i consumi privati siano visti stabili.

Tra questi Paesi, sempre secondo Moody’s, sia Hong Kong che Singapore avranno quest’anno una crescita economica molto debole, come già emerge dal forte rallentamento del Pil nel primo semestre del 2019. Moody’s ha ridotto le stime di crescita per entrambi dal 2,3% allo 0,5%, mentre per il 2020 Moody’s stima una crescita pari a +1% dal +2,7% per Hong Kong e un +1,2% dal +2,5% per Singapore.



Nel secondo trimestre il Pil dell’ex colonia britannica in Cina ha registrato una crescita dello 0,5% annuo, contro lo 0,6% dei primi tre mesi dell’anno (1,3% nel quarto trimestre 2018), su base sequenziale invece l’economia di Hong Kong ha segnato una contrazione dello 0,4% contro il precedente progresso dell’1,3% (0,3% il declino del quarto trimestre 2018) e la flessione dello 0,3% del dato flash.

Per quanto riguarda Singapore, nel secondo trimestre la crescita è stata limitata al +0,1%, ai minimi dell’ultimo decennio. Il governo di Singapore è stato costretto a rivedere le attese di crescita economica per il 2019 nell’intervallo compreso tra lo zero e l’1% del Pil dalla precedente forbice di 1,5-2,5%. Il ministero del Commercio e dell’industria ipotizza invece una crescita dello 0,5%, una pesante revisione rispetto alle stime di maggio, che prevedevano una variazione positiva tra il 3,5% e l’1,5%.

L’Fmi già ad inizio agosto aveva calcolato che un innalzamento dei dazi Usa al 25% sul restante import cinese, ovvero i 300 miliardi di merci menzionate poi da Trump a fine agosto, potrebbe colpire la crescita della Cina nel 2020 per lo 0,8% circa, con ovvie ricadute sull’economia globale. Anche senza l’applicazione di nuove restrizioni alle importazioni cinesi l’Fmi prevede per la Cina un Pil in aumento “solo” al 6,2% nel 2019 e al 6% sia nel 2020 che nel 2021, valore che potrebbe diventare quindi un 5,2% circa nel caso i nuovi dazi venissero effettivamente adottati.

Gli analisti del Fondo avvertono poi che, contrariamente a quanto sostenuto da Trump, i dazi non solo frenano la crescita globale, ma colpiscono anche gli importatori e i consumatori americani con riflessi pesanti su investimenti e consumi interni degli Usa.

Per niente incoraggianti anche le ultime rilevazioni effettuate dall’Ocse. Il Pil dell’area è visto in calo nel secondo trimestre del 2019 allo 0,5% dallo 0,6% del trimestre precedente. In particolare, per la zona euro l’espansione potrebbe fermarsi allo 0,2% dal precedente 0,4%. Il Pil tedesco invece potrebbe rivelarsi in calo dello 0,1% nel secondo trimestre dal +0,4% del primo.

In merito all’output globale, invece, l’Ocse prevede una crescita del 3,2% per il 2019, quindi un valore analogo a quello del Fmi, dopo il +3,5% del 2018, e del 3,4% nel 2020. La Cina è vista in crescita del 6,2% nel 2019 e del 6% nel 2020 dopo il 6,6% del 2018. Unica economia in espansione sarebbe l’India, che dopo il 7% del 2018 potrebbe raggiungere un tasso di crescita del 7,2% nel 2019 e del 7,4% nel 2020.

Ormai i media parlano di un “Tariff-geddon”, una catastrofe dazi: i calcoli di Bloomberg quantificano l’effetto della “trade war”, considerando sia l’effetto diretto delle nuove imposizioni sia quello indiretto della maggiore incertezza, in 585 miliardi di dollari nel 2021 su un Pil globale che dovrebbe toccare quell’anno i 97mila miliardi di dollari. L’effetto a livello locale potrebbe essere maggiore per la Cina, che vedrebbe il suo Pil ridursi dell’1%, rispetto agli Usa, colpiti per lo 0,6% (stessa percentuale di riduzione a livello globale). A limitare i danni per l’economia Usa potrebbe essere un intervento aggressivo da parte della Fed sui tassi di interesse, intervento che avrebbe l’effetto di mitigare, ma non di annullare, il rallentamento.

Il Congressional Budget Office (CBO) calcola in 580 dollari il costo aggiuntivo, nel prossimo anno circa, che ogni famiglia americana dovrà sopportare per via dell’aumento dei dazi. Il reddito reale verrebbe ridotto, per la famiglia media, dello 0,4%. L’effetto sulle esportazioni Usa, senza considerare gli ultimi dazi del 10% imposti a fine agosto ed effettivi da inizio settembre su 300 miliardi di import dalla Cina, sarà di un calo dell’1,7% entro il 2020, mentre le importazioni caleranno del 2,6%. La crescita dei prezzi al consumo derivante dai nuovi dazi avrà come effetto una diminuzione del Pil domestico e una riduzione del potere d’acquisto dei consumatori.

La Federal Reserve Bank di New York ha condotto ad agosto un’indagine parallela all’Empire State Manufacturing and Business Leaders Survey, dalla quale risulta che per il 79% delle industrie e per il 60% delle società di servizi i dazi hanno fatto crescere il costo degli input produttivi direttamente o indirettamente, il che si traduce, per i due terzi circa delle industrie, in una pressione al rialzo sui prezzi di vendita. In sintesi, l’effetto dell’incremento dell’imposizione sulle importazioni comporta un effetto negativo per la metà delle aziende del comparto manifatturiero e per il 40% di quelle dei servizi.

Nel suo report il CBO calcola che il deficit Usa arriverà a 960 miliardi di dollari nel 2019 per poi salire fino a un valore medio di 1.200 miliardi tra il 2020 e il 2029, cioè tra il 4,4% e il 4,8% del Pil, un valore molto alto rispetto alla media storica degli ultimi 50 anni.

I dazi avranno effetto anche sul deficit commerciale. Il valore sommato dei due deficit viene proiettato a 12.200 miliardi di dollari al 2029. Il rischio è che il debito federale, già elevato, intraprenda un percorso di crescita insostenibile.

Quanto di tutto questo sia già stato scontato, ovvero si rifletta già nelle quotazioni, dei mercati azionari? Guardando l’andamento del grafico Msci World in dollari, è evidente che qualche cosa è cambiato tra il primo e il secondo trimestre dell’anno: nei primi tre mesi la crescita delle quotazioni, rispetto ai tre mesi precedenti, è stata di quasi il 19%, nei secondi tre mesi invece “solo” del 4% circa (attualmente la variazione a tre mesi dei prezzi è sostanzialmente neutrale, quindi zero). Questa perdita di velocità nel tasso di crescita del trend riflette il mutato atteggiamento dei mercati rispetto alla “trade war”, che da guerra lampo si è invece tramutata in una guerra di posizione, che non solo logora i nervi, ma anche, come visto, impone un costo notevole all’economia globale.

A impedire un avvitamento al ribasso per il momento è stato, probabilmente, il tempestivo cambiamento di attitudine da parte delle banche centrali, Fed e Bce in testa, che sono passate in un lampo da un atteggiamento di politica monetaria restrittivo a uno molto più accomodante. Il problema è che la finanza può sì essere di aiuto, ma se calano i consumi, e questo è particolarmente vero per gli Usa, i tassi bassi aiutano solo fino ad un certo punto a mantenere elevato il livello degli utili aziendali.

Il grafico dell’Msci World mostra anche un altro tratto inquietante, ovvero il mancato raggiungimento dei massimi del 2018, toccati a gennaio a 2.250 punti circa, da parte del picco di luglio, arrivato solo fino a quota 2.221 circa. Senza la rottura dei precedenti massimi il rialzo visto dai minimi di dicembre 2018 rischia ancora di dimostrarsi solo una fase temporanea, per quanto estesa, di ripresa. Del resto in analisi tecnica ci sono molte figure tra quelle più comuni, come il doppio massimo o il rettangolo, che prevedono la formazione di due massimi allineati su livelli simili prima che il trend torni a interessare l’origine del rimbalzo, nel nostro caso i minimi del dicembre 2018 a 1.795 punti circa.

Per il momento questo scenario non viene escluso, ma non è nemmeno il favorito, se i prezzi dovessero però iniziare a scendere al di sotto dei minimi di inizio giugno, a 2.040 punti circa, il timore di essere solo all’inizio della fase discendente aumenterebbe in modo consistente. Sul fronte opposto, il superamento di area 2.180/2.190 sarebbe un primo indizio in favore di un nuovo tentativo di andare a saggiare la consistenza della resistenza di area 2.250. Solo il superamento di questo muro sgombrerebbe tuttavia il campo da dubbi e aprirebbe la strada a una nuova stagione di rialzi prolungati.

Qual è, allora, l’atteggiamento giusto da assumere per l’investitore in questa fase? Considerando che le quotazioni dei principali indici di Borsa sono prossime ai valori massimi dell’ultimo anno e mezzo, in ottica prudente sarebbe probabilmente opportuno alleggerire i portafogli e aumentare la liquidità. In questo modo si potrebbe guardare con maggior serenità a un eventuale avvitamento ribassista.