Eppur si muove! Facile esclamare questo mentre si osserva l’andamento dei mercati finanziari nel corso di quest’ultima tornata settimanale. A tratti sembra essere un lontano ricordo il gennaio appena trascorso dove il ritorno della volatilità ha caratterizzato le brusche discese sui principali listini azionari. Anche gli stessi operatori, a seguito dell’attuale rimbalzo dei prezzi, appaiono ora fiduciosi e non più adombrati come nelle precedenti giornate. Sono bastate poche sedute positive per far svanire i dubbi in tutti coloro che, dopo un inizio di anno all’insegna dei ribassi, ora, invece, sfoggiano i loro abiti e sorrisi come nelle migliori occasioni.
Il tema “tassi di interessi” non fa più paura, il livello delle quotazioni di borsa finora raggiunti non spaventa, la significativa discesa dei corsi obbligazionari pare non pervenuta. Ma la realtà è diversa e, appena lasciati i rispettivi desk e uffici, nel tragitto di ritorno a casa, tutti (nessuno escluso) tra il popolo degli addetti ai lavori, il dubbio ritorna a essere una certezza che si concretizza attraverso il classico interrogativo: devo vendere? Una risposta che non potrà mai essere giusta poiché coincidente con uno dei più fastidiosi paradossi del mondo finanziario.
Nella tradizione e storia della Borsa, tutti coloro che hanno voluto orientare la loro operatività alla vendita non hanno mai riscosso gradimento. Additati come soggetti negativi, poco inclini alla crescita dei mercati, e non fiduciosi degli investimenti finora realizzati, ogni qualvolta il dubbio sul momentum destava la loro serenità vedevano subito censurato questo pensiero da “traditore”. A partire dal loro principale responsabile di area, fino ad arrivare ai collaboratori più lontani, il motto “non vendere” aleggiava tra i corridoi. Tutto questo, ma ancor più in modo spregiudicato e in forma esponenziale, qualora la vendita fosse compiuta: a ogni variazione percentuale positiva (anche di pochi decimali) presente sul monitor, la frenesia dei colleghi andava a soffocare il malcapitato.
In ambito finanziario, il vendere, non è buona cosa. Si parla, invece, di “alleggerimento”, di “moderato ottimismo”, di “sottopeso” e mai e poi mai, di “vendita”. Alla base un solo pensiero comune molto semplice: se i prezzi scendono rappresentano un’opportunità di acquisto mentre se i prezzi salgono è doveroso comprare perché il mercato sta indicando la corretta valutazione. Altre interpretazioni non sono contemplate, poiché il concetto di investimento (e non speculazione) prevede implicitamente l’osservazione del patrimonio nel lungo periodo (quanto lungo?) e nient’altro. L’essere investiti (sempre) nasconde altre verità che, nella stessa arena finanziaria, tutti conoscono (sempre) e tutti ignorano all’occorrenza (sempre).
Nonostante i moltissimi dati e serie storiche a disposizione, la ricerca in tali insiemi avviene solo con un unico scopo: giustificare l’acquisto e mai la vendita. Anche oggi, all’indomani di una prima avvenuta flessione dei mercati, i consueti valori oggetto di analisi vengono bypassati: come nulla fossero.
Ma come detto la realtà è un’altra ed è bene conoscerla per trovarsi pronti.
Focalizzando l’attenzione al principale indice azionario statunitense S&P 500 (linea blu) insieme al già impiegato Cape (Cyclically adjusted price-to-earnings) ratio o Shiller P/E (linea rossa), risulta evidente come i livelli di quest’ultimo abbiano raggiunto nuovi massimi (area 39,63 punti). Questa rilevazione non è un caso isolato; infatti, lo scorso novembre riportavamo come tale significativa crescita potesse comportare un potenziale pericolo per i mercati azionari. Analizzando le serie storiche dello stesso indice creato dal celebre Nobel statunitense Robert Shiller si può evidenziare la sua “qualità anticipatoria” rispetto ai successivi ribassi: agosto 1987, luglio 1998, dicembre 1999, ottobre 2007, febbraio 2011, gennaio 2018, gennaio 2020 fino al più recente periodo novembre/dicembre 2021.
A seguito del nuovo massimo raggiunto dall’indicatore si è sempre assistito a una flessione a doppia cifra: un riscontro mai tradito. Guardando a posteriori, anche ai giorni nostri, il Cape ha confermato la propria indole: prima ha aggiornato la propria soglia massima (novembre/dicembre), poi, ripiegando lievemente, ha consegnato il testimone della sua profezia ai mercati finanziari. Gennaio 2022, infine, ne ha decretato l’ennesima validità.
Sulla base di questo connubio, l’attenta osservazione dell’indicatore di Shiller, deve essere una costante per le prossime settimane.
A confermare ulteriormente l’incertezza sui mercati finanziari è opportuno riprendere seppur marginalmente quanto sta accadendo sul versante obbligazionario degli strumenti finanziari indicizzati all’inflazione. Prendendo in considerazione il benchmark Bloomberg Barclays Capital Us Government Inflation-Linked Bond non può passare inosservata la variazione percentuale da inizio anno: -3,96%. Una flessione che, prescindendo dall’intento dei medesimi strumenti (mitigare la volatilità in un contesto di tassi al rialzo), vede una minusvalenza pressoché in linea con il parallelo paniere dei titoli governativi (rif. JPM GBI Gl. Usd).
Dopo tali evidenze, tra le varie conclusioni che si potrebbero trarre, quella di “comprare” appare la più ardita prescindendo dall’orizzonte temporale (lungo periodo o simili categorie). Attendere, invece, appare la scelta migliore anche se non contemplata tra i vari addetti ai lavori.
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