Trump sta scherzando con il fuoco: la guerra dichiarata alla Cina, nonostante le sue affermazioni rassicuranti, secondo le quali sarebbero solo i cinesi a pagarne il costo, sta imponendo un sacrificio anche agli americani. Un sacrificio che potrebbe mettere in discussione la rielezione dello stesso Trump a presidente nel novembre 2020.
L’indice dell’attività manifatturiera calcolato dall’Institute for Supply Management americano, un sondaggio tra i direttori degli acquisti che anticipa la tendenza del comparto, ad agosto è infatti sceso per la prima volta dall’agosto del 2016 al di sotto della soglia dei 50 punti, a 49,1, quella che separa uno scenario di contrazione da uno di espansione. L’indice era a 51,2 punti a luglio. L’andamento di questo indice fa quindi aumentare i timori che la guerra commerciale tra i due giganti dell’economia mondiale possa portare a una recessione.
Molte aziende statunitensi iniziano a produrre di meno a causa dell’aumento dei prezzi – di fatto sono loro a pagare l’incremento dei dazi, non potendolo scaricare in toto sui consumatori – e questa contrazione della produzione ha già avuto effetti sul mercato del lavoro.
Secondo Moody’s Analytics, a causa delle tensioni commerciali sono già andati persi 300mila posti di lavoro negli Usa, e questo potrebbe essere solo l’inizio. Mark Zandi, il chief economist di Moody’s, ritiene infatti che, se non verrà raggiunto un accordo, il costo in termini di posti di lavoro cancellati potrebbe essere di 450mila unità nel 2019 e di altre 900mila entro la fine del prossimo anno.
Il presidente Trump sa benissimo che la sua rielezione si gioca sulla capacità di presentarsi al voto con un’economia ancora in buona salute e con una Borsa che continua a tirare. Ecco perché, nonostante a parole si dimostri pronto ad andare avanti ad oltranza con le ostilità, in realtà sarà costretto ad un accordo con Pechino in tempi abbastanza brevi.
Per adesso Trump è calato nei sondaggi, quello di Cnn/Ssrs mostra come solo il 48% degli americani approvi il suo modo di gestire l’economia del Paese, in netto calo dal 56% di aprile, mentre per il Washington Post-Abc solo il 46% degli intervistati approva la sua politica economica, e anche in questo caso è in diminuzione dal 51% di luglio, mentre 6 americani su 10 pensano che già il prossimo anno ci sarà una recessione per colpa della guerra dei dazi. E non importa se per adesso i dati macro non evidenziano il rischio di una crescita negativa del Pil, ma solo di un suo rallentamento: tanto più i consumatori temono una recessione quanto più adatteranno le loro scelte in quest’ottica, causandone di fatto il suo concretizzarsi.
Come detto, la spia che la situazione sta diventando delicata per gli Stati Uniti è il mercato del lavoro: nei primi tre quarti del 2018 erano stati creati 1,9 milioni di posti di lavoro, che sono diventati 1,3 milioni nel 2019.
Il Bureau of Labor Statistics ha pubblicato l’indagine JOLTS (Job Openings and Labor Turnover Survey) relativa al numero di posizioni lavorative aperte, che a luglio si sono attestate a 7,217 milioni, in calo dalle 7,248 milioni di giugno e sotto le 7,311 milioni del consensus. E’ bene chiarirlo, i segnali che provengono dal fronte occupazionale sono solo di rallentamento della crescita, non certo di una crisi, però è significativo il fatto che la Cina, in vista della ripresa dei negoziati a Washington il 7 ottobre, abbia deciso di adottare una prima tranche di esenzioni dai dazi maggiorati, ma solo per quei prodotti che non sono facilmente reperibili altrove: si tratta di 16 nomi su un totale di oltre 5mila.
A rimanere fuori dalle esenzioni sono invece la soia, la carne di maiale e le auto, tutti prodotti che sono direttamente legati all’elettorato di Trump, formato in buona percentuale da agricoltori e da operai. E’ evidente che i cinesi sanno dove colpire per tenere sotto pressione il presidente americano, che da parte sua comunque può vantarsi di avere ottenuto già dei risultati concreti.
Ad agosto si è infatti registrato un calo del 16% rispetto ad agosto 2018 di esportazioni dalla Cina verso gli Stati Uniti, ferme a 44,4 miliardi di dollari. In generale, le esportazioni cinesi sono scese invece dell’1% su base annua a fronte di attese di un incremento del 2%. Le importazioni cinesi dagli Usa sono scese del 22% a 10,3 miliardi di dollari. Il risultato di queste variazioni è che il disavanzo commerciale statunitense si riduce così come l’avanzo commerciale cinese, che passa dai 45,06 miliardi di dollari del 2018 ai 34,84 miliardi del 2019, a fronte di attese di 43 miliardi.
Evidenti anche gli effetti sul deficit commerciale americano, che ha archiviato – secondo il Bureau of Economic Analysis (BEA) del Dipartimento del Commercio americano – il mese di luglio con un disavanzo di 54 miliardi di dollari, in contrazione del 2,7% dal passivo di 55,5 miliardi del mese precedente. Le esportazioni sono aumentate dello 0,6% a 207,4 miliardi, mentre le importazioni sono scese invece dello 0,1% a 261,4 miliardi di dollari. Gli analisi speravano in una contrazione a 53,5 miliardi di dollari.
Osservando il grafico del Nasdaq Composite, l’indice che risente con maggiore immediatezza dell’aumento delle tensioni derivanti dalla guerra sino-americana per via della presenza al suo interno di titoli ad alto Beta, è possibile notare come le quotazioni abbiano giocato per quasi tutto il mese di agosto con la media mobile esponenziale a 200 giorni, toccata a più riprese in qualità di supporto dal 5 agosto, senza fare mai registrare una chiusura di seduta al di sotto di questa curva.
La media a 200 giorni sembrerebbe confermare l’ipotesi che per adesso il mercato è ancora possibilista su uno scenario di rialzo. Certo, senza la rottura decisa di area 8.340 le oscillazioni delle ultime settimane potrebbero anche dimostrarsi una semplice pausa del ribasso avviatosi a luglio, ma se la Fed dovesse effettivamente tagliare i tassi nel meeting di settembre e le indiscrezioni che accompagneranno l’incontro di ottobre a Washington tra la delegazione americana e quella cinese dovessero essere incoraggianti, il Nasdaq potrebbe anche forzare i massimi storici di luglio.
In quel caso, anche gli investitori incerti, che quest’anno sono rimasti ai margini dell’azionario, potrebbero decidersi a rientrare. Non va infatti dimenticato che nel 2019 sono stati riscattati circa 350 miliardi di dollari dall’azionario globale, nonostante la buona performance delle Borse, mentre circa 680 miliardi di dollari sono stati trasformati da liquidità in investimenti sull’obbligazionario.
Il superamento di massimi da parte del Nasdaq, e ovviamente anche dall’S&P 500, potrebbe avere un effetto psicologico importante. In quel caso, l’indice tecnologico avrebbe spazio per salire fino in area 9.000 almeno, mentre l’S&P 500 avrebbe un target in area 3.300 punti.
Altrettanto significativo, tuttavia, potrebbe dimostrarsi l’effetto di una mancata rottura dei precedenti record: in quel caso, il mercato potrebbe iniziare ad annusare il sangue e puntare con decisione al ribasso, bucando questa volta la media esponenziale a 200 giorni, attualmente a 7.770 per il Nasdaq e a 2.860 circa per l’S&P 500. Se questo dovesse accadere, si rischierebbe l’effetto valanga, e i prezzi potrebbero non fermarsi prima di aver ritracciato almeno la metà del rialzo visto dai minimi di fine 2018, scendendo quindi in area 7.265 per il Nasdaq e a 2.690 nel caso dell’S&P 500.