Il brindisi di fine anno non è stato assaporato da molte borse internazionali. Le perfomance azionarie nel corso dell’indimenticabile 2020 hanno evidenziato record storici su alcuni listini e, allo stesso tempo, una selettiva distribuzione geografica dei risultati conseguiti. Analizzando la principale macro-segmentazione rappresentata dai benchmark MSCI emerge il prevalere della componente emerging rispetto a quella developed.
La differenza è superiore all’unità, ma, come vedremo, quest’ultima si amplifica maggiormente nell’osservazione dei singoli Paesi constituents. Ai fini delle performance dell’anno 2020, pur essendo menzionato l’indice statunitense Nasdaq 100, nel nostro ranking non verrà utilizzato poiché rappresentativo di uno specifico comparto settoriale (tecnologico) e non identificativo di un Paese. Escludendo pertanto questo sottostante, la miglior performance nel segmento developed è contesa tra l’indice Usa S&P 500 (+16,26%) e il suo opposto (geograficamente) concorrente asiatico Nikkey 225 (+16,01%).
Rimanendo nel medesimo contesto, ma a debita (e notevole) distanza, inseguono le principali piazze del Vecchio continente che, fatta eccezione per Regno Unito (-14,34%) e Spagna (-15,45%), vedono quantificare – in negativo – i loro risultati mediante una sola cifra: poco sopra ai sette punti percentuali si trova la Francia (-7,14%) e successivamente l’Italia con un saldo finale pari al -5,42% mentre i restanti vicini europei, invece, capitolano in territorio positivo.
L’Asia, con esclusione della performance degna di nota del Giappone, vede un epilogo poco rassicurante per i tre listini rimanenti nonostante la parità dell’Australia.
Nel 2020, come sintetizzato dal sopraindicato benchmark (rif. MSCI Emerging Markets), la sorpresa arriva dai cosiddetti Paesi emergenti. Il maggior contributo in termini di performance attribution geografica è riconducibile alla compagine asiatica che, attraverso una rivalutazione media di oltre venti punti percentuali, si pone al primo posto nel complessivo paniere da noi monitorato.
Il primato asiatico non ci stupisce e, come già illustrato, conferma ancora una volta la “distonia” della realtà finanziaria rispetto a quella economica: l’avvento del malaugurato Covid non ha frenato gli acquisti sui listini azionari appartenenti all’area geografica potenzialmente più coinvolta, ma, al contrario, ha invece gratificato gli stessi investitori.
Guardando all’intero panorama mondiale emerge una chiara differenziazione: ai record dei listini azionari americani si contrappongono i livelli di prezzo di gran parte delle borse europee e asiatiche ancora ben lontani dai rispettivi massimi. Guardando al solo indice giapponese Nikkei 225 – le attuali quotazioni (area 27.000 punti) – lo riportano indietro nel tempo di ben trent’anni (1990) con un ampio margine di possibile rivalutazione se raffrontato ai suoi record storici.
Il 2021 accoglierà il ritorno delle famigerate tigri asiatiche? È prematuro affermarlo, ma, fatta salva la “procreazione” di nuovi cigni neri, i presupposti per un ritrovato rilancio orientale potranno essere all’ordine del giorno.