Il tempo è galantuomo. Vero o non vero, questo aforisma implica una sostanziale difficoltà. L’unico, reale, e oggettivo problema, è circoscrivibile a un solo elemento discriminante che trova la sua più stretta collocazione nel poter individuare e definire “il quando”. Affermare che prima o poi capiterà “il cosa” è decisamente sconclusionato e deprimente per colui che, pur argomentando e approfondendo le varie tematiche alla base di una possibile scelta, si trova, però, impreparato nel rispondere alla più semplice delle domande: “Quanto tempo devo aspettare?”.



A questo lecito, elementare, spontaneo interrogativo l’unica risposta sensata e corretta deve (non può) essere una sola: “Non lo so”. Ovviamente, in caso di tale replica, l’intero castello paventato all’inizio vedrebbe la sua stessa distruzione ancor prima di un’auspicabile costruzione. Un fallimento. Preso atto che la risposta non può corrispondere al “non sapere”, l’alternativa più consueta poggia su fondamenta paradossali poiché vedono “il fattore tempo” quale preferibile appiglio e risoluzione al dilemma posto. Quindi: a “Quanto tempo devo aspettare?”, ecco la replica più amara, impersonale, e decisamente asettica: “Attendiamo e vediamo il trascorrere del tempo” o, più comunemente, “È necessario rispettare il lungo periodo”. Tradotto: a domanda, nessuna risposta.



Ovviamente, argomentare sul “fattore tempo” e i suoi affini e annessi archi temporali è pressoché una battaglia persa in partenza. Ma, proprio su tale campo di battaglia, si consumano le maggiori sconfitte che, oggettivamente, avvengono sempre e solo dopo o, più tecnicamente definibile, in sede di cosiddetta verifica ex post. E questo non è bene. Potremmo ampliare e approfondire infinitamente questa delicata tematica, ma, banale dirlo, vedrebbe un richiamo a teorie, assunti, studi e quant’altro che, nella realtà concreta, quella oggettiva, quella reale, hanno poco di attuale e soddisfacente (nei fatti) confermando, sostanzialmente, l’annoso dilemma tra “la teoria” e “la pratica”.



Accantonata la volontà di ricorrere a un approccio accademico, invece, preferiamo concretizzare l’eventuale efficienza di un assunto mediante l’impiego dei fatti che, nel nostro caso, vedono i numeri legati alla finanza. Quella reale, operativa, che tocca moltissime tasche. Quelle di tutti.

Al fine di poter dimostrare che il tempo è e sarà sicuramente galantuomo, ma, talvolta, accade che questo suo ambito essere stenta a divenire reale, riprendiamo l’andamento di due listini azionari oggetto di sicura attualità e di certo interesse.

Volutamente ometteremo le argomentazioni sottostanti alle scelte che hanno spinto a investire in passato su di essi rimettendo a voi l’approfondimento. Sicuramente, però, è lecito affermare che, negli anni che andremo a individuare, l’intento a investire su tali piazze era decisamente sensata e senza alcun rischio di spregiudicatezza.

Il primo indice riguarda la borsa cinese (rif. Shanghai Composite Index) che, attualmente, vive . ancora – serie difficoltà.

In occasione della crisi finanziaria 2007-2008 le quotazioni dell’indice orientale avevano raggiunto un livello di poco superiore ai 6.000 punti. Questa vetta, oggi, è molto lontana, infatti, gli odierni prezzi sono in area 3.000 punti. Il “fattore tempo”: sedici anni trascorsi.

Rimanendo in Oriente, ma, modificandone di poco la geografia, il medesimo dilemma sul “fattore tempo” interessa un’altra borsa: quella giapponese. L’indice Nikkey 225 è pressoché giunto ai suoi massimi storici dopo aver vissuto una lunga, lunghissima, agonia. Quest’ultima si è caratterizzata per un “fattore tempo” molto più prolungato rispetto ai precedenti sedici anni cinesi: trentaquattro.

Ebbene sì. Oltre trent’anni ci sono voluti per poter assistere a una risalita dei prezzi con destinazione la soglia raggiunta nel lontano 1989/1990.

Lo ribadiamo: abbiamo volutamente omesso le argomentazioni a sostegno dell’una e dell’altra scelta di investimento, così come le ovvie e scontate osservazioni in ambito di money management, diversificazione e quant’altro. Resta, comunque, la realtà dei fatti. Questa realtà.

Piccolo inciso: sia la Cina che il Giappone, a “quei tempi”, erano considerati né mode, né settori inficiati da aspettative smodate. Stiamo parlando di Paesi che, chi più, chi meno, nutrivano l’ambizione di poter sparigliare gli equilibri finanziari ed economici a livello internazionale. Diventare nazioni alternative alle storiche super potenze già consolidate. Chi avrebbe mancato questa opportunità attraverso un mancato investimento?

La bontà nella riuscita era evidente (così si diceva). Ecco i risultati: dopo sedici e trentaquattro anni di attesa il capitale è stato recuperato solo a metà (Giappone). E per l’altra metà? Non preoccupatevi. Abbiate fiducia. Nessuna fretta. Il tempo è galantuomo.

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI