La Federal Reserve ha sorpreso i mercati con un annuncio più accomodante di quanto le principali banche d’affari si aspettassero. Gli indici sono esplosi al rialzo e l’oro anche con una reazione dal significato inequivocabile confermata dall’andamento del dollaro. Non c’è stato alcun accenno a un cambiamento delle politiche monetarie in senso restrittivo nonostante da almeno un trimestre abbia fatto capolino l’inflazione che ha colpito sia i costi energetici che quelli alimentari.
La Federal Eeserve in questa fase del ciclo economico e finanziario ha le spalle al muro. L’economia è ancora debolissima e la leva sui mercati, o le bolle, sono tali che qualsiasi accenno di cambiamento della politica monetaria e rialzo dei tassi rischierebbe di compromettere seriamente, o di “uccidere”, la ripresa. Dalla crisi Lehman tutte le volte che la Fed ha provato a normalizzare la politica monetaria ha seriamente compromesso il ciclo economico e generato ondate di volatilità sui mercati. La differenza tra quello che è successo negli ultimi dieci anni e lo scenario attuale è che gli spazi di manovra per la Federal Reserve sono prossimi allo zero.
Il mercato del lavoro americano deve poter generare più di mezzo milione di nuovi occupati al mese per due anni per tornare ai livelli pre-Covid. È impossibile anche solo pensare a questo obiettivo senza una politica monetaria più che accomodante in uno scenario economico devastato dalla pandemia e dalle tensioni commerciali. La decisione della Fed ha un’ovvia conseguenza: le aspettative di inflazione continueranno a salire. Non importa se alla fine arriverà, inevitabile, un rialzo dei tassi perché questo scenario è distante nel tempo e nel frattempo si dispiegheranno tutti gli effetti inflattivi delle politiche monetarie attuali.
Questo, ripetiamo ancora una volta, è un cambiamento di scenario epocale sia perché dal 2008 in poi l’inflazione sperata o minacciata non è mai arrivata, sia perché il mondo, investitori inclusi, si è abituato a ragionare in uno schema di assenza di inflazione se non di deflazione pura.
Questo significa che quello che abbiamo visto negli ultimi dieci anni, dalla salita senza sosta dei titoli tecnologici alla “sotto performance” dei titoli più legati all’economia reale e alle materie prime, rischia di terminare per la comparsa di un elemento assente da più di dodici anni: l’inflazione.
Un secondo elemento è “fiscale”. Negli Stati Uniti le ipotesi di aumento delle aliquote sono già al centro del dibattito. Aumentare le tasse sulle famiglie è complicato ed è ancora più complicato aumentarle ai “ricchi” che hanno i “risparmi” al riparo dal fisco: è più facile aumentare le tasse alle società, soprattutto su quelle che negli ultimi trimestri hanno continuato a fare profitti record. Gli indiziati, anche solo per il peso sugli indici, sono sempre i tecnologici.
Possiamo a questo punto chiederci se le politiche monetarie alla fine non avranno controindicazioni, per esempio per un’inflazione fuori controllo e se quindi arriveranno gli aumenti dei tassi. È possibilissimo, ma l’orizzonte temporale al momento sembra molto al di fuori di quello degli investitori.
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