L’Italia, da alcune ore, vede i propri titoli di Stato decennali riconoscere all’investitore un rendimento dell’1%. È poco? È troppo poco? No, è semplicemente il giusto. Un “giusto” perché il mercato “prezza” questo e, come più volte ricordato, il mercato stesso stabilisce i prezzi, quindi, inevitabilmente, ha e avrà sempre e solo ragione.
Si può essere titubanti per la “modica” cifra messa sul banco, ma, più di questo, l’Italia non può dare (per ora). Questo uno per cento (o poco più) rappresenta paradossalmente uno sproposito rispetto a quasi tre mesi fa: allora, in febbraio, le quotazioni del decennale domestico vedevano ripagate il singolo investimento attraverso un frazionale 0,448%; se questa “inezia” viene raffrontata all’attuale rendimento (1,014%), appare indiscutibile e innegabile la “notevole” rivalutazione avvenuta in questi ultimi mesi. Spontaneo chiedersi quale sia il motivo di questo aggiuntivo premio e, al momento, la risposta più in auge è riconducibile al recente dato concernente l’inflazione Usa che, avendo raggiunto un incremento superiore al 4%, sembra aver influenzato l’intero mercato dei bond governativi non solo statunitensi, ma in prospettiva anche a livello internazionale con l’Europa (e l’Italia) quale prime destinataria di tale manna.
Calendario alla mano, il dato sull’inflazione americana ci riporta ai livelli di settembre 2008 mentre, il rendimento del titolo di Stato italiano a dieci anni ci ricorda i valori di settembre 2020.
In questo ritorno al passato, come già argomentato in materia di inflazione, anche questa volta i conti (numeri) non tornano.
Analizzando la recente dinamica dei rendimenti di titoli di Stato italiani a 10, 20 e 30 anni è facilmente riscontrabile un univoco incremento rispetto allo scorso febbraio, ma dietro questa crescita si cela una non conforme omogeneità (e proporzionalità) in termini di YTM (yield to maturity); nella fattispecie, con riferimento alle singole rivalutazioni rispetto ai minimi di febbraio, si può osservare un decennale che passa da uno 0,448% all’odierno 1,014% registrando un raddoppio dell’intera remunerazione prevista. Sul titolo a 20 anni, invece, si concretizza un incremento dallo 0,97% all’1,765%; infine, sul trentennale si giunge a un 2,049% anziché l’iniziale 1,387%. Evidente la “distonia” tra i rendimenti e le scadenze a essi riconducibili dove, generalmente, si può apprezzare una remunerazione maggiore per i titoli con maggiore duration.
Sulla base di queste risultanze, la vera notizia non risiede nel ben ritrovato 1% sui nostri titoli a 10 anni, bensì la “scomparsa” di quanto invece dovuto (o sarebbe dovuto) sulle scadenze a più ampio respiro soprattutto sulla parte della curva tra i 10 e i 20 anni che – a oggi – appare la più penalizzata.
Per tali evidenze si possono prospettare solo due scenari possibili: il primo sul versante prettamente finanziario (perché di stampo operativo) che prevede una potenziale diminuzione dei corsi (e quindi un incremento dei rendimenti) sui titoli a 20/30 anni. Il secondo, invece, sul contrapposto aspetto perché di sola natura economica mediante una possibile attuale anticipazione su quanto potrebbe accadere a breve termine. La risposta nell’operatività arriverà direttamente dai titoli e pertanto dal mercato già nei prossimi giorni; la seconda riposta, invece, trova un proprio destinatario e appuntamento finale con l’appuntamento in calendario a giugno (il giorno 10) dove, salvo imprevisti, l’intera comunità finanziaria internazionale apprenderà il tanto temuto stop agli acquisti dei titoli di Stato europei.
Ecco svelata la vera preoccupazione del mercato: non si tratta dell’inflazione, ma semplicemente anticipare le mosse rispetto al volere della Bce.
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