Estate 2021. In questo caldo agosto una serie di dilemmi dal tratto enigmistico aleggiano tra i vacanzieri all’ombra dei molti ombrelloni. Il primo: per i suoi investimenti quale rendimento totale annuo medio si attende nei prossimi cinque anni? A seguire il secondo: quanto durerà l’impatto economico negativo causato dalla pandemia? E infine il terzo: quando sceglie un investimento (rif. risparmio gestito in fondi) preferisce che sia gestito attivamente o passivamente? 



Lasciamo a voi dare le dovute risposte perché, oltre alle vostre, un campione di oltre 23.000 investitori residenti in ben 32 località di tutto il mondo ha già fornito (tra il 30 aprile e il 15 giugno 2020) le proprie indicazioni. Tutto questo – e molto altro ancora – emerge dalla recente ricerca Global Investor Study 2020 di Schroders che «esplora i comportamenti e gli atteggiamenti» degli intervistati (quali investitori).



In questo nostro intervento abbiamo volutamente circoscrivere il punto di osservazione ai soli tre citati interrogativi, poiché, alla base degli stessi, è possibile rilevare come – a oggi – il risparmiatore incappi in trappole che nulla hanno a che vedere con la blasonata finanza comportamentale, ma, bensì, con la più tradizionale e ripetitiva abitudine dell’essere umano: la mancanza di sapere. Nonostante la delicatezza di questo “essere”, tale ignoranza non accetta alcun compromesso con l'”avere”, infatti il recente passato con i suoi tragici accadimenti appaiono già dimenticati. 



Vediamo cosa emerge da questo interessante elaborato. In merito al primo quesito: «Il rendimento totale annuo medio atteso dagli intervistati per i prossimi cinque anni è del 10,9%. Questo alquanto improbabile risultato è superiore dell’1,02% rispetto alle previsioni di due anni fa e in aumento di appena lo 0,2% sullo scorso anno». 

Nello specifico si possono osservare alcune differenze tra le aree intervistate: «Gli europei sono meno ottimisti circa i rendimenti attesi dal proprio portafoglio (9,4%), mentre gli americani sono i più positivi (13,2% in media)». Da rilevare, inoltre, come le variazioni percentuali auspicate dai 32 Paesi interessati siano molto diverse tra loro: gli Stati Uniti d’America (primo posto nella graduatoria delle aspettative) vedono un incremento pari al 15,38% rispetto al Giappone (ultimo in classifica) che si accontenta di un “modesto” 5,96%; per la nostra Italia (terzultima) il ritorno è invece per un 7,93%. A seguito di tali entità, noi stessi concordiamo con la considerazione fatta dall’autore dello studio: «Nonostante il recente sconvolgimento dei mercati, gli investitori hanno, sorprendentemente, prospettive più che ottimistiche circa i rendimenti totali dei propri investimenti» ovvero «Gli investitori sono eccessivamente ottimisti circa i rendimenti totali dei loro investimenti». 

Come detto, il recente passato sembra ormai dimenticato, ma ecco arrivare l’anomalia attraverso la risposta fornita alla seconda domanda: «Quanto al negativo impatto economico del Covid-19, il 66% degli investitori ritiene che sarà percepito nel prossimo semestre-biennio, ma solo il 21% crede che si protrarrà per oltre due anni». 

Avendo manifestato questo tipo di consapevolezza per i prossimi 12/24 mesi, le aspettative di rendimento dichiarate dagli intervistati, appaiono alquanto discutibili e oggettivamente poco percorribili salvo mediante un (molto) significativo incremento del portafoglio rispetto al dato fornito. Di fatto, nel report emerge chiaramente tale distonia: «Alla luce di tale consapevolezza delle implicazioni della pandemia sul fronte economico, ci sorprende che molti intervistati non prevedano conseguenze negative per i rendimenti dei loro investimenti nel prossimo anno». 

E infine il terzo responso con l’annessa discrepanza: solo il 62% predilige «investimenti basati sulla replica della performance del mercato», mentre l’81% degli investitori è interessato ai fondi che adottano «un approccio basato su valutazioni dettagliate di una società e della sua possibile redditività futura» (cosiddetta gestione attiva). 

Nonostante quest’ultimo volere, si legge, come «I risultati indicano che se da un lato i consumatori tendono a preferire gli investimenti attivi, una quota consistente dei loro portafogli è passiva (53%) e pertanto contrasta con la loro personale inclinazione». 

Oltre a quest’ultimo aspetto, è opportuno riportare alla mente del risparmiatore il “fattore qualità”. Consultando le analisi “SPIVA® U.S. Scorecard” (divisione di S&P Global) dell’anno 2020 emerge una chiara inefficienza dal punto di vista qualitativo della gestione per il comparto azionario. Con riferimento al comparto U.S. Equity Funds (indice S&P 500), il 60,33% dei fondi non riesce a fare meglio del proprio benchmark (performance a 1 anno) mentre, estendendo l’orizzonte temporale, la percentuale aumenta al 69,71% (3 anni), al 75,27% (5 anni) e all’82,32% (10 anni) fino a un valore prossimo alla quasi totalità pari al 94% (20 anni). Anche osservando il paniere dei gestori europei il parallelismo con il principale listino azionario mondiale (rif. S&P 500) non appare confortante: il 54,34% dei money manager registra performance a 1 anno inferiori a quelle di mercato così come nei periodi successivi: l’81,56% (3 anni), l’88,19% (5 anni) e il 94,62% (10 anni). 

Questi numeri rappresentano un’amara verità, ma senza alcun clamore di novità: le colpe saranno molte e per lo più ricondotte all’avidità della finanza e al solito cinico mercato. Se ne prende atto, ma quello che stupisce (ancora una volta) è ritrovare questo “stato di leggerezza” in capo al risparmiatore: troppe, davvero troppe, le divergenze nel binomio tra le aspettative e la realtà al pari di un sogno di una notte di mezza estate. 

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