L’oro fa parlare di sé e, purtroppo, da quanto si apprende dai vari media il contenuto non è confortante. Ieri si leggeva: «L’oro non brilla più, anno più nero dal’91». Questo il titolo dell’articolo a firma Sissi Bellomo pubblicato dal quotidiano Il Sole 24 Ore che, nel proprio intervento, argomentava sulla recente performance negativa fatta registrare del lingotto. Reflazione, allungo rialzista delle altre materie prime e domanda in crollo del bene rifugio sono i fattori che stanno decretando la discesa dei prezzi. Altro elemento che influenza le quotazioni è ricondotto al ritrovato yield sui titoli di stato statunitensi ormai giunto oltre la soglia del punto e mezzo percentuale. Quest’ultimo boost negativo (e la sua correlazione inversa) è di storico e comune sapere come si evidenzia nel grafico riportato (in giallo l’andamento dei prezzi dell’oro mentre in nero la curva dei rendimenti). 

Prescindendo dall’intervento dei molti osservatori e commentatori che certamente faranno seguire i loro approfondimenti, questa recente débâcle del metallo prezioso non può giungere nuova a tutti voi lettori. In questi casi è veramente lecito affermare come in cosiddetti “tempi non sospetti” la perplessità (e criticità) dell’essere considerato “un rifugio” in ambito d’investimento da noi è stata obiettata con i sempre abitudinari numeri. Bisogna tornare indietro al novembre 2019 quando su queste nostre pagine veniva approfondita e smascherata la supposta concezione: «Oro, i numeri che smontano il mito del bene rifugio». Oggi, a distanza di oltre un anno, il rumore della ritrovata notizia ha sicuramente un maggior effetto rispetto al furto a un caveau colmo d’oro. È vero che quanto accade sui prezzi del lingotto sia significativo, ma è ancor più vero e importante quello che si sta concretizzando sul mercato delle materie prime. 

È ormai di pubblico dominio l’aggiornamento sui livelli record finora raggiunti sia dai listini azionari (linea rossa) che, parallelamente, dai contrapposti obbligazionari (linea verde). 

Il dilemma su un’imminente discesa è un argomento quotidiano tra gli addetti ai lavori e nelle sale operative e, di maggiore interesse, sono i temi “sul dove investire?” che vedono coinvolti i money manager ai fini di una conseguente allocazione di questi averi nella successiva fase post disinvestimento. A questo interrogativo, una plausibile risposta (e opportunità), può emergere dall’osservazione di un semplice grafico: quello rappresentativo delle stesse materie prime. 

Il benchmark (rif. CRB Index) da noi impiegato riproduce il paniere delle principali commodities all’interno del quale sono presenti ben 19 sottostanti; fatta eccezione per il peso percentuale del petrolio (oltre il 23%) la gran parte (11) degli altri constituents contribuiscono per un 5/6% (tra cui l’oro) mentre i restanti (5) attorno all’1%. Si tratta di un basket ben diversificato composto al fine di poter meglio rappresentare l’intero universo investibile.

Alla attuali quotazioni è facilmente individuabile il rilevante gap di performance rispetto alle tradizionali asset class (bond & equity). Dopo i minimi raggiunti a marzo dell’anno scorso (livelli di prezzo che lo hanno riportato al dicembre 1971), il sottostante ha vissuto una rivalutazione senza precedenti se analizzata in termini di rapporto performance/tempo e questa significativa dinamica non può lasciare indifferenti.

Ovviamente stiamo parlando di un vero e proprio investimento in ottica di lungo periodo che, prendendo in considerazioni gli evidenti fattori finora citati, potrebbe rappresentare un’opportunità in termini di rischio/rendimento potenziali. 

Lasciamo al mercato il giudizio finale su questa intuizione che, al momento, appare a sconto rispetto ai mercati azionari e obbligazionari. 

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