Lo scossone registrato sui mercati finanziari nei giorni scorsi non ha sorpreso Carlo Pelanda, economista, più volte consulente dei Governi italiani tra prima e seconda repubblica: «Già alla fine dello scorso anno – ci spiega – con il mio gruppo di ricerca avevamo notato che si avvicinava un cambio di ciclo e che avremmo, quindi, avuto circa due anni di metastabilità, che non significa instabilità, ma la presenza di tante oscillazioni, tanta volatilità, con una maggior probabilità di una ristabilizzazione nel 2026. Dunque, la turbolenza di questi giorni era abbastanza prevedibile, ma va vista all’interno di un quadro di metastabilità, che non significa rottura della struttura che regge il sistema. Ora sarà importante prestare attenzione al volume e ai tempi del rimbalzo, e anche alla sua omogeneità, perlomeno nel mondo delle democrazie, cioè del G7 e dei suoi alleati».



Si sta anche guardando a quello che farà la Fed, se allenterà i tassi prima di settembre, anche se c’è chi l’accusa di aver lasciato troppa liquidità nel sistema, consentendo così un’eccessiva crescita delle quotazioni dei titoli azionari.

C’era in effetti un eccesso di liquidità che ha costretto le Banche centrali a rialzare i tassi di interesse con l’obiettivo, mai dichiarato, di mandare in recessione/stagnazione l’economia. Se le proiezioni degli analisti a un anno e mezzo dicono che il rischio di recessione è più forte di quello di inflazione, per le Banche centrali si tratta di una “buona notizia”, perché la loro missione anti-inflativa prevale su ogni altra considerazione. Purtroppo, a mio avviso, le Banche centrali non hanno valutato a fondo cosa sia l’inflazione da offerta, contro cui non possono fare nulla.



Ci spieghi meglio.

L’inflazione da domanda può essere curata mandando in recessione l’economia, ma quella da offerta può essere risolta solo tramite un’azione politica e geopolitica. Per fare un esempio, se i prezzi energetici aumentano, perché c’è una minor offerta di materie prime, le Banche centrali non possono risolvere il problema. Ora, come lei ricordava prima, subiscono una certa pressione per ridurre, tramite una manovra di emergenza, il costo del denaro in modo che possa ripartire il trend ascendente delle Borse.

Sarebbe una manovra appropriata?

Non sarebbe ottimale, perché verrebbe immessa altra liquidità nel sistema. Inoltre, non si può dimenticare che al di sopra di tutto c’è il problema della fiducia. La metastabilità, infatti, implica una turbolenza dovuta a una crisi di fiducia, quella che sui giornali viene chiamata incertezza. Dunque, chiedere alle Banche centrali un’azione di emergenza senza che sopra vi sia un’architettura geopolitica che instilli fiducia negli attori di mercato è un po’ un azzardo. L’idea stessa di una manovra di emergenza potrebbe minare la fiducia, perché vorrebbe dire ammettere che ci si trova in una situazione di emergenza, e questo non farebbe altro che amplificare le turbolenze. Siamo, quindi, in un momento molto delicato: tocca alla politica, non solo alle Banche centrali, dare una risposta, possibilmente coordinata, senza stravolgere l’indipendenza delle Banche centrali stesse.



Che tipo di risposta politica servirebbe?

La risposta migliore sarebbe quella proveniente dal G7, che rappresenta ancora il centro del mondo in termini di mercati. Bisognerebbe consolidare l’alleanza e creare uno strumento finanziario di rafforzamento per tutte le economie del G7 e quelle che vi dipendono. Purtroppo per un’azione di questo tipo potrebbe volerci del tempo, perché ancora non si vede una sufficiente convergenza per la gestione di questo tipo di crisi che richiedono il pieno ripristino della fiducia.

La mancanza di fiducia è stata anche cruciale nella crisi del 2008. Siamo di fronte a qualcosa di simile?

Allora è stato relativamente facile affrontare la crisi di fiducia: è bastato che le Banche centrali inondassero di liquidità il sistema. Oggi, invece, le Banche centrali, con un approccio molto restrittivo, stanno ritirando la liquidità in eccesso e in ogni caso da sole non sarebbero in grado di creare fiducia: occorre loro un sostegno da parte della politica. Non parlo di politiche nazionali, ma di un’azione concordata e convergente del G7, per diventare il vero prestatore di ultima istanza e in questo modo dare fiducia a tutti gli attori di mercato.

Non si tratta di un obiettivo facile da raggiungere, visto che il G7 dipende dalle politiche nazionali.

Sì, ma in questo momento è un obiettivo necessario, perché nessuna nazione da sola può riuscire a produrre un effetto positivo. Il mondo è bipolare, con il confronto Cina-America, e c’è un nuovo confine da rispettare, ma Parigi, Berlino e anche Roma faticano a capirlo, anche perché Germania e Italia hanno modelli economici basati sul mercantilismo. Una volta compreso, allora può divenire più semplice una compattazione del G7 in grado non solo di produrre deterrenza verso i nemici, ma anche di individuare soluzioni di rafforzamento della fiducia economica all’interno delle democrazie.

In che modo?

Per esempio, la creazione di una metamoneta, cioè una moneta convenzionale basata su un paniere composto dalle valute del G7, con oscillazioni limitate, permetterebbe di ridurre alcuni fenomeni esotici con potere destabilizzante, come il carry trade, che è stato un innesco della turbolenza dei giorni scorsi, visto che il rialzo dei tassi di interesse da parte della Bank of Japan ha colto impreparati gli investitori che acquistavano yen per investirli sfruttando il loro basso costo. Una metamoneta del G7 che garantisce di fatto tutte quelle nazionali o regionali tipo l’euro sarebbe un fattore fondamentale di fiducia. Non si può ovviamente creare in pochi anni, ma solo l’idea di annunciarlo come progetto di studio darebbe un impulso di fiducia sufficiente alla ristabilizzazione.

Una compattazione del G7 di questo tipo sarebbe possibile anche in caso di vittoria di Trump alle presidenziali?

Se l’America si isolasse dagli alleati rischierebbe di perdere il dominio globale. Al di là, quindi, di quelli che sono i linguaggi da campagna elettorale, Trump ha dei consiglieri che non sono isolazionisti di vista corta. Io sono tra coloro che non si aspettano scossoni così gravi da una sua eventuale vittoria. Casomai sono più preoccupato da una presidenza Harris che potrebbe essere inadeguata per la prevalenza di un approccio ideologico, di estrema sinistra, nel momento in cui ci vuole del realismo molto duro.

Al di là delle presidenziali Usa ci sono altri eventi o temi cui bisognerà prestare attenzione?

Bisognerà osservare il comportamento della Cina, che potrebbe vedere nella metastabilità che si legge nel mondo delle democrazie un’occasione per qualche azione forte. Il gigante asiatico, infatti, è in crisi e ha bisogno di creare un qualche simbolo di potenza. Chiaramente se dovesse verificarsi questa ipotesi, lo scenario potrebbe peggiorare. Tuttavia, ritengo che Pechino non sia in grado di attuare quella politica espansiva e di potenza che cerca di fare a parole.

Di tempo per creare una fiducia solida in ogni caso ce ne vorrà, quindi potrebbero esserci altri scossoni sui mercati nei prossimi mesi…

La volatilità ha due direzioni, quindi non produce necessariamente destabilizzazioni strutturali, a meno che, come può succedere in un terremoto, l’intensità della scossa non sia veramente distruttiva, ma questa potrebbe venire solo dalla geopolitica. E questo spiega perché assistiamo a una mobilitazione dei Governi per cercare di evitare eccessi di frizione geopolitica: questi non vanno bene né alle democrazie, né ai regimi autoritari, men che meno alla Cina, che deve difendere le esportazioni per non implodere economicamente. Resto comunque ottimista, nel senso che ritengo probabile che in qualche momento del 2025, più nella seconda metà dell’anno che nella prima, ci sarà una ristabilizzazione, almeno per il mondo delle democrazie. Non mi resta che dire a chi ci legge che siamo in un momento in cui occorre freddezza: la nave ha qualche falla, ma non sta affondando.

(Lorenzo Torrisi)

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