Dollar index (paniere delle principali valute contro dollaro Usa, dove l’euro ha un peso preponderante) e oro, quotato in dollari, hanno tradizionalmente un andamento opposto, ovvero le quotazioni dell’oro scendono quando il dollar index sale (dollaro forte, oro debole) e viceversa salgono quando il dollar index scende (dollaro debole, oro forte).



Questo rapporto inverso è stato estremamente evidente fino alla metà dello scorso anno, poi la relazione per alcuni mesi si è interrotta: il dollar index tra la fine del 2018 e il luglio del 2019 è stato sostanzialmente stabile e sembrava disinteressato non solo all’andamento delle materie prime, ma anche alle Borse, mentre l’oro, sulla spinta dei timori di un rallentamento dell’economia, gli stessi che hanno tenuto fermo il dollaro, si è apprezzato notevolmente.



Nelle ultime settimane, tuttavia, quando il dollaro ha ripreso una tendenza maggiormente decisa, al rialzo (quindi un dollaro che si rafforza), sostenuto dalla convinzione che un rallentamento dell’economia Usa effettivamente c’è seppur meno preoccupante del previsto (per ora) e che un’eventuale recessione è ancora lontana, l’oro ha cominciato nuovamente a sentire la correlazione inversa con la moneta Usa.

In particolare, il dollar index ha accelerato al rialzo dai minimi del 26 agosto, quando sul grafico del future dell’oro è comparso uno “shooting star”, una candela tipicamente ribassista (simile a quelle viste, ad esempio, il 25 giugno e il 3 luglio), elemento che spesso si pone in prossimità del culmine di un uptrend.



Sul grafico dell’oro cash, invece, è comparso alla stessa data un “gravestone doji”, elemento caratterizzato da valori di apertura e chiusura coincidenti o quasi e da un massimo intra-day molto superiore, che compare raramente, ma che quando lo fa annuncia di norma l’avvio di fasi di ripiegamento importanti. Un elemento simile, ad esempio, lo si ritrova sul grafico giornaliero il 9 novembre 2016 e sul grafico settimanale nell’ottava terminata il 30 agosto 2013, oltre che in quella terminata il 30 agosto 2019.

Le implicazioni negative derivanti dalla presenza di queste figure verrebbero attivate solo da una violazione, da confermare in chiusura di seduta, della sua base, quindi dei 1.525 dollari sul cash e dei 1.537 dollari sul future.

Tornando al grafico settimanale del cash, è possibile notare che l’oscillatore Rsi a 14 periodi ha raggiunto area 85%, un valore che è stato raggiunto solo altre due volte negli ultimi 13 anni circa, a maggio del 2006 e ad agosto del 2011. Un primo target in caso di discesa al di sotto di area 1.525 potrebbe essere la media mobile esponenziale a 50 giorni, a 1.442 dollari circa, e la violazione di quei livelli farebbe temere di essere in presenza di una vera e propria tendenza ribassista, non solo di una flessione correttiva temporanea.

Il dollar index, a fine agosto, ha toccato un massimo a 99 punti circa, mettendo sotto pressione il picco del 1° agosto a 98,93 circa, senza riuscire per il momento a superarlo in chiusura di settimana. La rottura al rialzo di questa resistenza lascerebbe spazio a movimenti verso il lato alto del canale rialzista che sale dai minimi di febbraio 2018, passante a 102,20 circa. La ripresa dell’uptrend da parte dell’indice del dollaro potrebbe pesare notevolmente sul prezzo dell’oro, anche lui inserito in un canale crescente, ma in questo caso disegnato dai minimi di maggio, la cui base, a 1.480 dollari circa potrebbe diventare il primo target del ribasso, un supporto da rispettare per evitare danni maggiori in un secondo tempo.

Fino a che il dollar index rimarrà al di sotto di area 99 punti, magari tornando verso la base del canale, a 97 circa, l’oro potrà invece continuare ad apprezzarsi, almeno fino a 1.590 circa, lato alto del suo canale crescente.

Il buon andamento dell’economia Usa potrebbe, tuttavia, permettere alla Fed di non intervenire aggressivamente, riducendo i tassi di interesse, cosa a cui invece i mercati sembravano credere fino a poco tempo fa, anche a seguito delle insistenti pressioni di Trump. Uno scenario che rende credibile in un ulteriore apprezzamento per la moneta Usa, e quindi, in base a quanto detto in merito alle correlazioni, di deprezzamento dell’oro.

E’ difficile, in questo momento, fare una previsione oltre il breve termine per quello che riguarda l’economia statunitense. I dati sono infatti contrastati, ma se la Fed non darà segnali di tagliare i tassi per più di uno 0,25% nella riunione di settembre, il trend di crescita del dollaro potrebbe proseguire indisturbato, lasciandosi alla fine alle spalle la citata quota 99.

Sono molti gli elementi a sostegno di un’ipotesi “atterraggio morbido” per l’economia Usa, nonostante le tensioni derivanti dalla guerra dei dazi. L’indice Pmi Chicago (attività manifatturiera) nel mese di agosto è infatti salito a 50,4 da 44,4 punti di luglio, risultando nettamente superiore anche alle attese degli addetti ai lavori, fissate su un indice pari a 48,1 punti.

Certo, il dato sul Pil del secondo trimestre, fermo al 2% dopo il +3,1% del primo quarto, rende poco probabile il raggiungimento degli obiettivi di crescita della Casa Bianca posti dal Council of Economic Advisers al 3%, ma da qui a precipitare in una fase recessiva ce ne corre.

E in ogni caso i dati relativi all’inflazione, che comunque è in crescita, non sono tanto alti da legare le mani alla Federal Reserve nel caso fosse necessario intervenire ancora a sostegno dell’economia.

Volendo fare una sintesi, è possibile affermare che la situazione negli Usa non è certamente drammatica come forse alcuni temevano, ma il peso delle tensioni commerciali probabilmente non è ancora filtrato completamente all’interno dell’economia, che comunque nel secondo trimestre ha già rallentato molto rispetto al primo. I consumi per adesso tengono, ma la fiducia dei consumatori ci dice che probabilmente in futuro anche quelli fletteranno.

L’indice di fiducia dei consumatori statunitensi, calcolato dall’Università del Michigan e da Reuters, ad agosto si è infatti attestato a 89,8 punti, il valore più basso dall’ottobre del 2016 e il calo mensile maggiore dal 2012, risultando inferiore alle previsioni degli addetti ai lavori e alla lettura preliminare, entrambe fissate a 92,1 punti (dato di luglio 98,4).

L’indice sulle aspettative future è sceso a 79,9 punti da 82,3 punti precedenti (consensus 82,3 punti), quello della condizione attuale si ferma invece a 105,3 punti dai 107,4 preliminari. A pesare sull’andamento dell’indice è il timore dei danni che i nuovi dazi potrebbero fare all’economia.

L’indice del Conference Board, comunicato il 27 agosto, ha mostrato invece un calo limitato per il mese di agosto, a 135,1 dal 135,8 di luglio. Il Present Situation Index è addirittura salito da 170,9 a 177,2 (massimi degli ultimi 19 anni, dal 179,7 del novembre 2000), l’Expectations Index è sceso dal 112,4 di luglio a 107 punti, confermando l’idea che il futuro potrebbe non essere tutto rose e fiori.

Questi valori degli indici di fiducia sono comunque ancora compatibili con futuri aumenti dei consumi, anche se solo limitati. E’ tuttavia poco probabile, se le tensioni commerciali sino-americane proseguiranno, che i prossimi dati sui consumi siano così buoni come quello di venerdì 30 agosto: a luglio la spesa per consumi personali è risultata in crescita dello 0,6%, superiore alle attese (pari a +0,5%) e dopo una lettura del +0,3% nel mese di giugno.

Per l’intero secondo trimestre l’aumento dei consumi, che come noto valgono per i due terzi dell’attività economica totale, è stato del 4,7%, la crescita più veloce dal 2014.

A pesare sui consumi futuri potrebbe essere anche l’andamento dei redditi: i redditi personali sono infatti cresciuti dello 0,1% a luglio a fronte di un incremento dello 0,5% rilevato a giugno (rivisto da +0,4%) e di un consensus del mercato pari a +0,3%. La Fed ha però la situazione in pugno, si conserva molte cartucce da sparare e sembra resistere alle ingiunzioni di Trump per dare fuoco alle polveri già adesso.

Tornando all’andamento del prezzo dell’oro c’è un altro elemento, oltre alle prospettive per l’economia Usa e globale e il loro riflesso sul valore del dollaro, che potrebbe condizionare l’andamento delle quotazioni.

Secondo una ricerca dell’Australia & New Zealand Banking Group, le banche centrali stanno comprando oro per sterilizzare in parte i rischi derivanti dall’aumento di liquidità nel sistema dovuto alle loro politiche monetarie ultra-espansive. Nello studio dell’Australia & New Zealand Banking Group si ipotizza che gli acquisti netti di oro da parte delle banche possano rimanere nell’ordine delle 650 tonnellate, il 10% circa del consumo mondiale del metallo giallo. In particolare, sono gli istituti centrali di Russia, Turchia, Cina e Kazakhstan che per sopperire al rischio di un indebolimento delle loro monete potrebbero intensificare gli acquisti di oro.

La People’s Bank of China (PBOC) detiene 1.936 tonnellate di oro, pari solo al 3% delle riserve in valuta estera, e, se come sembra, i cinesi volessero diversificare rispetto al dollaro, questa percentuale sarebbe destinata a salire in futuro.A luglio, ultimo dato ufficiale, le riserve d’oro della PBOC sono cresciute per l’ottavo mese consecutivo, valutate 88,9 miliardi di dollari circa dagli 87,3 miliardi circa di giugno.

Nei primi sei mesi dell’anno gli acquisti netti ufficiali da parte delle banche centrali sono stati di 374 tonnellate circa (una tendenza che dovrebbe continuare, aiutando la crescita del prezzo dell’oro, se è vero che più della metà delle banche centrali, secondo un sondaggio che le riguarda, sono intenzionate ad aumentare le riserve in oro in loro possesso).

Già nel 2018, del resto, le banche centrali hanno comprato 651 tonnellate di oro, un aumento del 74% rispetto agli acquisti dell’anno precedente, raggiungendo il valore più alto dal 1971. Il totale detenuto attualmente è attorno alle 34mila tonnellate.

Si farebbe, tuttavia, un errore imputando all’attività di acquisto da parte degli istituti centrali un forte condizionamento all’andamento delle quotazioni del metallo giallo: il prezzo, infatti, si muove seguendo anche altre dinamiche delle quali si è già discusso, principalmente il rischio di una recessione e il suo effetto sulla moneta Usa, oltre alle tensioni geopolitiche, che però tendono ad avere effetto sia sul dollaro Usa sia sull’oro, entrambi visti come beni rifugio in momenti di incertezza e paura, con un risultato netto poco significativo.

Certo è che un sostegno alla domanda derivante dalle banche centrali non può che dare un contributo al rialzo dei prezzi, nel caso sia in corso, come nel mese di agosto, una tendenza positiva.

Anche Goldman Sachs ha evidenziato che le banche centrali, in particolare quelle dei paesi emergenti, sono molto attive sul mercato dell’oro e potrebbero rimanere tali fino a quando non verrà risolta la guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina.

Dal momento che, come detto, l’andamento al rialzo del prezzo dell’oro è stato condizionato in questi ultimi mesi dall’incertezza geopolitica ed economica, oltre che dai bassi (spesso negativi) rendimenti dei bond, se effettivamente il picco toccato il 26 agosto a 1.555 dollari circa dovesse confermarsi tale per un qualche tempo, vorrebbe dire che i mercati finanziari hanno ormai scontato il peggio (che è ben diverso dal dire che il peggio è passato: i mercati spesso si muovono con largo anticipo rispetto ai fatti concreti) e che gli asset più rischiosi, in particolare le Borse, che vengono visti come un’alternativa ai beni rifugio come l’oro, potrebbero tornare, almeno temporaneamente, ad apprezzarsi.