La Federal Reserve ha alzato i tassi mercoledì dopo la conclusione del Fomc, il comitato di politica monetaria. Il mercato si attendeva un incremento di 50 punti base e non è rimasto deluso. Erano 22 anni che la Fed non procedeva con un aumento superiore ai 25 punti base, e questo la dice lunga sulla gravità della situazione.



Quello che resta da indovinare è come si muoverà la banca centrale nei prossimi mesi, stretta tra la morsa dell’inflazione crescente e del rischio di un rallentamento dell’economia. Per adesso Powell ha anticipato la riduzione del bilancio della banca centrale da 9mila miliardi di dollari, un’altra misura anti-inflazionistica, ma ha escluso che nel prossimo futuro si possa materializzare un rialzo addirittura da 75 punti base, cosa che invece i mercati stavano iniziando a valutare come probabile già a giugno.



Evidentemente la Fed è consapevole del fatto che strangolare l’economia adesso che iniziano a comparire segnali di rallentamento non sarebbe una mossa giustificabile agli occhi della politica. È vero che la Fed è indipendente, ma è anche vero che le elezioni di medio termine si stanno avvicinando, arrivarci con l’economia in recessione non farebbe molto piacere ai Democratici.

Goldman Sachs prevede il 15% di probabilità di una recessione nei prossimi 12 mesi e del 35% nei prossimi 24 mesi. Per adesso quello che è certo è che il Pil Usa del primo trimestre si è contratto dell’1,4%, smentendo le attese di un rialzo dell’1% (a pesare sul risultato è stato il saldo commerciale, che ha sottratto il 3,2% al Pil, ma anche le scorte hanno pesato per lo 0,82%, mentre i consumi, la componente principale del Prodotto interno lordo statunitense, sono cresciuti del 2,7%). Il secondo trimestre dovrà essere positivo per evitare che si inizi a parlare di recessione tecnica.



Secondo Benjamin Harris, il capo economista del Tesoro Usa, l’economia statunitense continuerà a espandersi anche nel 2022 nonostante il risultato del primo trimestre. La previsione attuale, del +2,4%, potrebbe venire rivista al ribasso, ma “the US economy is expected to continue its expansion this year”, ha detto Harris. Inoltre, sempre secondo Benjamin Harris, l’inflazione potrebbe avere raggiunto il suo massimo, almeno quella core, che esclude alimentari ed energia “core inflation may have peaked in spring 2022 and started to ebb”.

Le aspettative di un aumento dei tassi hanno colpito sia il mercato azionario, ad aprile lo S&P500 ha archiviato la peggiore perdita mensile dell’ottobre del 2008 e la perdita nei primi 4 mesi dell’anno, del 13,3%, è stata la maggiore per un inizio di anno dal 1939, sia quello dei bond, il rendimento sul T-Note a 10 anni è salito fino al 3% dall’1,51% del 31/12/2021 (rendimenti e prezzi hanno un andamento opposto per le obbligazioni).

I rendimenti sui titoli con scadenza a 2 anni, quelli maggiormente sensibili ai mutamenti di politica monetaria della Fed, sono saliti anche più rapidamente, al 2,7% circa, causando un appiattimento della curva dei rendimenti che non ha fatto altro che confermare il rischio di una recessione nei prossimi mesi.

Insomma, gli investitori in azioni e quelli in obbligazioni sono stati costretti negli ultimi mesi ad aggiustare le proprie posizioni in funzione delle mutate aspettative sull’andamento dei tassi di interesse, causando un ribasso parallelo di entrambe le classi di asset, una situazione anomala: di solito infatti una di queste asset class è vista come alternativa all’altra, legate da un sistema di vasi comunicanti che fa sì che al rialzo di una corrisponda una discesa dell’altra e viceversa.

Attualmente invece, prendendo come riferimento la chiusura di aprile, abbiamo assistito a un ribasso di portata storica per lo S&P500 nella prima parte dell’anno e a un calo del Bloomberg U.S. Aggregate bond index, del 9,5% da inizio anno. Era dal 1976 che non si verificava una discesa in tandem di questa portata.

Il classico portafoglio 60/40, 60% azioni e 40% bond, ha subito quindi quello che in gergo pugilistico si chiama un “uno due”, un doppio colpo che ha messo in crisi questa strategia. Nei primi mesi dell’anno è stato possibile scommettere sul rialzo delle materie prime, ma adesso che l’inflazione potrebbe avere raggiunto i suoi massimi, sia per ragioni fisiologiche che di intervento delle banche centrali, puntare su metalli e alimentari come soybeans e oats sembrerebbe un po’ come chiudere la porta della stalla dopo la fuga dei buoi.

Gli investitori più sensibili alla recente volatilità sembrano essere comunque quelli del reddito fisso: secondo i dati di EPFR da inizio anno i fondi monetari e obbligazionari hanno perso circa 250 miliardi di dollari di gestito, quelli azionari ne hanno guadagnati più di 80. Evidentemente la media degli investitori è più ribassista sui bond che sulle azioni. Le trimestrali dello S&P500 del resto per adesso non sono andate male: del 55% delle società dello S&P500 che hanno presentato i conti, il 77% ha superato le stime sugli utili in media dell’8% e il 69% ha superato quelle sui ricavi in media del 4% (dati Fundstrat).

Per quello che riguarda gli investitori in azioni c’è poi la convinzione che “the market will always come back”, difficilmente cioè comprando sui ribassi, almeno in ottica di medio periodo, si sbaglia. Probabilmente questo approccio ha una sua validità, per evitare tuttavia di lanciarsi nel vuoto il suggerimento, nel caso si decidesse di comprare sui prezzi attuali strumenti correlati allo S&P500 (puntare sul Nasdaq, con l’aumento dei tassi in corso, appare veramente una mossa molto azzardata, per non dire incosciente, dal momento che i titoli tecnologici sono più sensibili rispetto a quelli tradizionali al livello del costo del denaro), è di adottare uno stop loss da posizionare subito al di sotto dei 4.000 punti. Discese inferiori a quei livelli potrebbero essere seguite da ulteriori cali nell’ordine degli 800/1000 punti. Oltre area 4.400 lo S&P500 potrebbe ritrovare invece la strada per i massimi di inizio anno in area 4800 punti.

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