Gli occhi degli investitori sono stati puntati per alcune settimane sul discorso che Jerome Powell, il capo della Federal Reserve, avrebbe tenuto al simposio di Jackson Hole. La materia del contenere non è poca cosa, c’era la sensazione che i tempi fossero maturi perché la Fed passasse da un target puntuale sull’inflazione (adottato per la prima volta nel 2012) ad uno basato su di una media di più ampio respiro.



Come atteso e sperato la Federal Reserve ha effettivamente annunciato, in una nota precedente l’intervento di Powell, una revisione delle finalità che guideranno da ora in avanti la politica monetaria. Da adesso l’obiettivo di riferimento della banca centrale è quello di un’inflazione in media del 2%. La stessa Fed chiarisce che quando l’inflazione resta debole in modo persistente crea rischi per l’economia.



Un cambiamento di questo tipo nell’atteggiamento della Fed riguardo l’inflazione non avrà probabilmente riflessi sull’immediato, la soglia del 2% di inflazione è attualmente lontana e lo resterà probabilmente ancora a lungo, almeno fino a che l’economia non sarà tornata a livelli pre-Covid, ma si sa che i mercati vivono di aspettative.

La Fed sta cercando ormai da anni di dare un maggiore slancio alla crescita dei prezzi, una crescita che è rimasta bassa nonostante il ciclo record di espansione vissuto fino allo scorso anno. E questa esigenza è sentita ancora di più adesso che la crescita economica è bruscamente rallentata: il passaggio dal target puntuale (inflation targeting) ad uno medio (average inflation targeting), quindi più flessibile, permetterebbe alla Federal Reserve di aggiungere nuovi strumenti al suo arsenale di strumenti da utilizzare quando l’economia necessita di una spinta.



Già adesso con i tassi sui Fed funds ai minimi termini, e quindi impossibilitata ad agire su di essi abbassandoli come misura di stimolo, la Fed si è attivata con acquisti su larga scala di Treasury e di altri asset, e grazie al nuovo atteggiamento assunto potrà continuare a farlo in futuro non essendo frenata dal rialzo (per adesso solo sperato) dell’inflazione.

Occorre ricordare che la Fed, a differenza della Bce (che adotta un analogo inflation targeting), non ha solo il compito di monitorare il tasso di inflazione, ma anche quello di disoccupazione, nel suo mandato c’è quindi il compito di favorire la crescita economica.

I mercati finanziari potrebbero in quel caso non sentirsi più minacciati dalla rigida soglia del 2% (ad oggi c’è la consapevolezza che la Fed inizierebbe ad alzare i tassi molto prima che il 2% venga raggiunto per evitare un surriscaldamento), ma sarebbero consapevoli di avere campo libero, e per un periodo di tempo relativamente ampio, anche in caso di superamento di quella barriera.

Se gli sforzi immani messi in campo dai principali paesi per contrastare gli effetti della pandemia dovessero tradursi in un robusto rimbalzo da parte dell’economia, sarebbe illogico vederli poi frustrati a causa dell’avvicinamento del target del 2% di inflazione.

Certo, ragionando con l’esperienza passata, quella maturata negli anni Ottanta, sarebbe lecito guardare con timore ad un simile cambiamento: se l’inflazione dovesse sfuggire al controllo della banca centrale, questa sarebbe poi costretta a far salire i tassi di gran carriera per riportarla su valori ritenuti accettabili, ma negli ultimi anni ci sono stati dei cambiamenti strutturali che permettono di ritenere meno probabili fiammate inflazionistiche.

Negli ultimi 10 anni il “Pce core price index”, quello utilizzato dalla Fed come misura dell’inflazione, è infatti rimasto praticamente sempre al di sotto del 2% e questo nonostante i tre round di alleggerimento quantitativo messi in pista durante l’ultima fase espansiva del ciclo, dalla crisi del 2008.

Tra i cambiamenti che hanno comportato uno scollamento tra crescita dell’economia e crescita dei prezzi c’è la cosiddetta “Amazonification”, l’impatto dell’e-commerce, sulle modalità di consumo, ma un ruolo più importante lo hanno probabilmente avuto proprio le banche centrali con le loro politiche di tassi bassi o bassissimi.

La disponibilità di denaro a basso costo ha permesso anche alle aziende meno competitive di sopravvivere negli ultimi anni, con il risultato che quelle più efficienti non riescono a incrementare i loro prezzi di vendita.

Da non sottovalutare, poi, l’aspetto demografico: la popolazione dei paesi sviluppati invecchia e con il salire dell’età aumenta anche la propensione al risparmio a scapito di quella agli investimenti, così l’economia perde di dinamismo e le tensioni sui prezzi risultano attenuate.

Attualmente i titoli di Stato a 10 anni hanno un rendimento nell’ordine dello 0,6%, le obbligazioni societarie hanno uno spread rispetto a questi che va dai 140 punti base circa per i titoli investment grade ai 530 punti base circa per i titoli high yield, valori che sono prossimi a quelli medi di lungo periodo (quindi relativamente bassi se si considera la fase recessiva attuale), ma se la Fed dovesse cambiare il suo approccio nei confronti dell’inflazione questi spread potrebbero scendere ancora: il mercato maturerebbe una convinzione ancora più salda dell’attuale che i tassi rimarranno bassi ancora per anni.

La domanda per le obbligazioni corporate (per la loro capacità di produrre reddito rispetto ai titoli di Stati) rimarrebbe alta, gli emittenti troverebbero gioco facile sia a rifinanziare il debito esistente sia ad emetterne di nuovo per altre finalità. E’ evidente che ad essere influenzati da un mutamento della politica nei confronti dell’inflazione sarebbero non solo i bond, ma anche il dollaro (che potrebbe indebolirsi) e di conseguenza l’oro (che potrebbe invece rafforzarsi, almeno per quello che riguarda il suo valore in dollari).

La Fed per rendere credibile il suo nuovo atteggiamento, tassi bassi anche in presenza di un’inflazione crescente, potrebbe decidere di adottare anche una qualche forma di “yield curve control”, di controllo della curva dei rendimenti: se i mercati facessero salire i rendimenti, la banca centrale potrebbe decidere di acquistare asset per riportare in basso i tassi d’interesse.