Dopo mesi in cui il mercato del lavoro americano ha mostrato dati particolarmente solidi sorprendendo le stime al rialzo, ieri è arrivato il primo dato deludente. I datori di lavoro americani hanno aggiunto “solo” 175mila posti di lavoro ad aprile, molto meno che a marzo (300mila) e sotto le attese degli economisti. Il tasso di disoccupazione è salito lievemente dal 3,8% di marzo al 3,9% di aprile e la crescita dei salari è stata sotto le attese. È presto per concludere se i dati di ieri siano una pausa rispetto a un quadro economico inaspettatamente positivo oppure se siano le prime avvisaglie di un rallentamento o di una recessione. Il rallentamento che ci si aspettava per questo autunno, intanto, è ormai in ritardo di più di due trimestri.
Supponiamo, però, che queste siano effettivamente le prime avvisaglie di una frenata dell’economia e che questa sia la ragione per cui la Fed non ha agito nonostante i segnali di un’accelerazione dell’inflazione. La questione che si apre, se questo è quello che sta accadendo, è verso quale ciclo di espansione monetaria e fiscale si stia procedendo e con quali conseguenze. Oggi si entrerebbe in recessione con un deficit pubblico già molto al di sopra della media e con un’inflazione superiore al 2%. Nel 2019, prima della “crisi Covid”, il deficit pubblico americano era sotto il 4% e nel 2007, prima del fallimento di Lehman, sotto il 2%. Gli Stati Uniti hanno chiuso il 2023 con un deficit sopra il 6%. In queste condizioni e nella prospettiva di un imminente ciclo di taglio dei tassi è lecito chiedersi quanto tempo passerebbe prima che l’inflazione torni nuovamente a fare male.
Le condizioni finanziarie sui mercati sono favorevoli e infatti i fondi hedge hanno appena chiuso il miglior trimestre degli ultimi quattro anni. Se il mercato già festeggia per un dato sul mercato del lavoro più debole delle attese è inevitabile chiedersi quale sia la prospettiva dei prossimi trimestri. Se le condizioni finanziarie, monetarie e fiscali che si intravedono pongono le basi per ulteriori rialzi dei mercati azionari, allora la distanza tra economia reale e mercati è destinata ad ampliarsi ulteriormente.
I risparmi, come noto, non sono distribuiti equamente tra le fasce di reddito e tra le fasce di età della popolazione. Il paradigma che si ripropone almeno dal 2008 per salvare economia e famiglie nei fatti salva prima e più di tutti le borse al punto da chiedersi se le ragioni dei lavoratori e delle famiglie non siano usate per salvare gli investitori. Il debito pubblico rende complicata qualsiasi fase di normalizzazione dei tassi perché il costo del debito assorbe una quota elevata di quanto i Governi raccolgono con le tasse. I tassi bassi, che sembrano irrinunciabili, gonfiano innanzitutto le borse.
Più passa il tempo, più diventa chiaro che la soluzione non passa da una tecnica economica o finanziaria, ma da una decisione politica. Il sacrificio che sembra inevitabile per i detentori del debito pubblico e per i risparmiatori è accettabile solo in vista di una prospettiva diversa che consente a famiglie, lavoratori e società di tornare protagonisti.
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