Uno spettro s’aggira per l’Europa: il nazional-populismo. I mercati finanziari, i più sensibili agli umori dell’opinione pubblica (e quindi alla politica) e i più desiderosi di stabilità, lo hanno registrato nella settimana successiva al voto, con una caduta in tutte le piazze del Vecchio continente. Parigi ha indossato la maglia nera (meno 6,2%), seguita da Milano (meno 5,8%), in Spagna e Germania gli indici sono scesi rispettivamente del 3,6% e del 3%. Eppure le elezioni europee hanno visto il successo del Partito popolare – in modo particolare proprio in Spagna e Germania – che non è affatto euroscettico, né nazional-populista.
È comprensibile che venga dalla Francia la preoccupazione principale: l’azzardo di Emmanuel Macron rischia di aumentare l’instabilità nell’Unione europea. Ci sono tre possibilità: che vinca la destra lepenista, che vinca l’unione di sinistra, che vinca il Presidente. Il primo caso, oggi probabile, apre tre anni di coabitazione tra un Governo di destra e un Presidente il cui obiettivo è mettere i bastoni tra le ruote al Primo ministro (non a caso il Rassemblement national invoca un futuro Governo di unità nazionale). Il secondo caso aggiunge confusione a confusione, con Jean-Luc Mélenchon a suonare i tamburi di una rivolta che è sì contro la destra, ma anche contro Macron e contro l’Ue. Il terzo caso è il meno probabile, ma ben che vada il Presidente dovrebbe sopravvivere con un Parlamento ancor più frantumato e un Paese profondamente diviso. Dunque, la Francia non potrà più offrire una solida stampella a una Germania anch’essa colpita dall’avanzare della destra, ma in ogni caso tenuta a galla dalla solida boa democristiana.
I mercati, insomma, si sono comportati in modo razionale. Ma perché l’Italia? Il risultato elettorale non ha sorpreso nessuno e ha rafforzato nel suo insieme il Governo, tanto che Roma è l’unica isola di stabilità politica. Per quale ragione, allora, le borse si sono allarmate? Per capirlo bisogna passare dalla politica pura alla politica economica e all’economia. Sull’Italia pesa il macigno del debito e le prospettive sono meno buone del previsto. Non solo. La prudenza della Bce che ha ridotto i tassi solo di un quarto di punto e non ha chiarito che cosa farà nei prossimi mesi, ha dato la certezza che per pagare il debito bisognerà impiegare buona parte del fieno che la crescita degli ultimi due anni ha messo in cascina.
Il costo del denaro resterà caro di qui al 2025, i tassi d’interesse reali sono troppo elevati se è vero che, secondo le ultime stime della Banca d’Italia, il tasso d’inflazione scenderà a fine anno addirittura all’1,1% e al 2% al netto di beni energetici e alimentari, una caduta precipitosa, rispettivamente di 4,8 e 2,5%, quindi ben oltre la discesa dovuta al calo dei prezzi internazionali di gas e petrolio. Una tendenza che fa temere una sorta di deflazione strisciante visto che l’aumento del carovita resterà ben al di sotto del 2% anche nei prossimi due anni. Per capirlo, diamo un’occhiata alle ultime stime di Bankitalia.
Il prodotto lordo crescerà dello 0,6% quest’anno, meno dell’un per cento previsto dal Governo. Dovrebbe restare a più 0,9% nel 2025 per salire all’1,1% nel 2026. I consumi delle famiglie aumentano di poco (appena 0,2%), quelli collettivi dello 0,8%, gli investimenti dello 0,9% quelli in costruzioni appena 0,6%, ma l’anno prossimo l’edilizia crolla del 3,5% portando vicino allo zero l’andamento totale degli investimenti. E l’effetto del Pnrr? Possibile che sia nullo se non addirittura negativo?
Consumi più investimenti determinano la domanda effettiva che, come si vede, resta quanto meno debole. A sostenere il prodotto lordo sono, ancora una volta, le esportazioni, le più sensibili alle incertezze della domanda internazionale. Siccome per circa due terzi vanno in Germania e Francia, è chiaro che l’onda dell’instabilità ricade anche su un’economia italiana che si è decisamente raffreddata dopo i bollori degli scorsi anni.
In attesa di avere i numeri dell’Eurosistema, vediamo che il Pil tedesco è ancora in discesa (meno 0,2% l’ultimo dato), la Francia va meglio (+1,2%), ma sconta un disavanzo della bilancia estera (mentre l’Italia è un attivo) e un deficit pubblico superiore al 5% che porta Parigi in procedura d’infrazione insieme a Roma. Lo spread con i Bund decennali è in risalita in Francia e in Italia come conseguenza dei conti pubblici in squilibrio e di una congiuntura debole, due indicatori economici fondamentali che s’aggiungono alla instabilità politico-sociale.
Le elezioni sono passate, i problemi restano come e peggio di prima. Mario Draghi, nel ricevere in Spagna il premio Carlo V ha tenuto un discorso per spronare l’Ue a crescere di più e meglio, ha esortato ad aumentare la produttività, a costruire un vero mercato dell’energia, “dobbiamo adeguarci ai rapidi cambiamenti tecnologici, aumentare la capacità di difesa e realizzare la transizione verde”, ha aggiunto. Sono i temi della sua agenda. Ma che fine farà? Oggi Super Mario sembra la voce di uno che grida nel deserto.
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