Circondate da un imbarazzante silenzio mediatico, le motivazioni appena depositate della sentenza del tribunale di Caltanissetta relative al processo sul depistaggio dell’attentato di Paolo Borsellino e della sua scorta fanno risprofondare l’Italia nel peggior clima delle stragi di Stato, fissando importanti verità storiche ma sollevando definitivamente inquietanti interrogativi lontani dal poter essere risolti.
Già lo scorso luglio, con la pronuncia della sentenza era emersa la conferma di uno scenario a dir poco inquietante: dalle dichiarazioni di prescrizione di due dei tre dei tre poliziotti accusati di avere depistato le indagini sulla strage di via D’Amelio, si era infatti compreso che la tesi accusatoria aveva trovato riscontro dalle emergenze processuali.
A distanza di dieci mesi, sono state depositate alla vigilia di Pasqua le motivazioni, lunghe oltre 1.400 pagine, da cui emergono tre passaggi davvero inquietanti, per usare un eufemismo, messi nero su bianco dai giudici: soggetti estranei alla mafia parteciparono alla preparazione della strage del 19 luglio 1992; non fu Cosa nostra a fare sparire l’agenda rossa di Paolo Borsellino; la polizia depistò le indagini attraverso la costruzione del falso pentito Scarantino.
Provando ad operare il massimo sforzo di sintesi, lasciando auspicabilmente ad altre occasioni il dovuto approfondimento, i giudici affermano, quanto alla preparazione, che “oltre ai tempi della strage, oggettivamente distonici rispetto all’interesse di Cosa nostra, vi sono ulteriori elementi che inducono a ritenere asfittica la tesi che si arresta al riconoscimento della paternità mafiosa dell’attentato di via D’Amelio”, precisando che “l’istruttoria dibattimentale ha consentito di apprezzare una serie di elementi utili a dare concretezza alla tesi della partecipazione (morale e materiale) di altri soggetti diversi da Cosa nostra e/o di gruppi di potere interessati all’eliminazione di Paolo Borsellino”.
Come ipotizzato negli scenari più foschi, non furono solo i mafiosi a volere la morte di Borsellino. Il tribunale dà infatti particolare risalto alla presenza, riferita dal pentito Gaspare Spatuzza, di una persona estranea alla mafia al momento della consegna della Fiat 126 imbottita di tritolo; uomo che il pentito non aveva mai visto e che non faceva parte di Cosa nostra. Un uomo che secondo i giudici non può che avere una appartenenza istituzionale, “non potendo logicamente spiegarsi altrimenti il fatto di consentire a un terzo estraneo alla consorteria mafiosa di venire a conoscenza di circostanze così delicate e pregiudizievoli per i soggetti coinvolti come la preparazione dell’autobomba destinata all’uccisione di Paolo Borsellino”.
Giova ricordare al lettore meno attento che se Spatuzza non avesse deciso di collaborare, svelando il depistaggio ordito attorno alle dichiarazioni del falso pentito Scarantino, non ci sarebbe stato alcun nuovo processo e pertanto egli non può che essere ritenuto altamente affidabile.
Non pago di quanto affermato, il tribunale innalza poi l’agenda rossa a simbolo del depistaggio, affermando che esso scatti subito dopo la strage, quando qualcuno recupera la borsa del giudice Borsellino, cerca la sua agenda rossa e la porta via, tra residui di corpi umani e rottami delle automobili ancora in fiamme. “A meno di non ipotizzare scenari inverosimili di appartenenti a Cosa nostra che si aggirano in mezzo a decine di appartenenti alle forze dell’ordine, può ritenersi certo che la sparizione dell’agenda rossa non è riconducibile a una attività materiale di Cosa nostra”, scrivono i giudici nelle motivazioni.
E proseguono: “Ne discendono due ulteriori logiche conseguenze: in primo luogo, l’appartenenza istituzionale di chi ebbe a sottrarre materialmente l’agenda. Gli elementi non consentono l’esatta individuazione della persona fisica che procedette all’asportazione dell’agenda (…) ma è indubbio che può essersi trattato solo di chi, per funzioni ricoperte, poteva intervenire indisturbato in quel determinato contesto spazio-temporale e per conoscenze pregresse sapeva cosa era necessario e opportuno sottrarre. In secondo luogo – continuano ancora le motivazioni formulando una delle più incisive stoccate – un intervento così invasivo, tempestivo e purtroppo efficace nell’eliminazione di un elemento probatorio così importante per ricostruire il movente dell’eccidio di via D’Amelio certifica la necessità per soggetti esterni a Cosa nostra di intervenire per alterare il quadro delle investigazioni evitando che si potesse indagare efficacemente sulle matrici non mafiose della strage e, in ultima analisi, disvelare il loro coinvolgimento nella strage di via D’Amelio”.
Vengono francamente i brividi e anche una certa rabbia a leggere queste affermazioni. Molta rabbia per la verità. Come non fosse sufficientemente chiaro il concetto, i giudici quindi sono certi “della presenza di altri soggetti o gruppi di potere co-interessati all’eliminazione di Paolo Borsellino con un ruolo nella ideazione, preparazione ed esecuzione della strage di via D’Amelio”, parlando “di convergenze di interessi”.
Quel che è certo, si legge ancora nella sentenza, è che la gestione della borsa di Paolo Borsellino dal 19 luglio al 5 novembre è ai limiti dell’incredibile: nessuno ha redatto un’annotazione o una relazione sul suo rinvenimento, nessuno ha proceduto al suo sequestro. Il tribunale riepiloga tutta la vicenda gettando ombre sulla condotta di diversi esponenti delle istituzioni, come il carabiniere Arcangioli, visto allontanarsi con la valigetta e comunque prosciolto da ogni accusa in altro processo, sottolineando come appaia inspiegabile il numero di mutamenti di versione rese nel corso degli anni in ordine alla medesima vicenda dal giudice Ayala pur comprendendosene lo stato emotivo profondamente alterato. Sia che l’agenda sia sparita a pochi minuti dall’esplosione, sia che essa sia sparita successivamente, la sua vicenda si lega a doppio filo tanto alle presenze esterne che compaiono in fase di preparazione quanto all’azione di depistaggio.
A proposito di essa, infine, il tribunale inizia con il sottolineare che i servizi segreti parteciparono del tutto “impropriamente” alle indagini sulla strage di via D’Amelio, non consentendo la legge tale possibilità. Da qui discenda una seconda decisiva valutazione circa il fatto che sia legittimo ritenere che il capo della Polizia e i vertici dei servizi segreti non potessero assumere una iniziativa così extra-ordinem senza un minimo avallo istituzionale, che non poteva che provenire dall’organo di vertice politico dell’epoca. Passaggio non poco inquietante ma logicamente ineccepibile.
Inevitabile chiedersi che scopo avesse questa irrituale collaborazione che rappresenta un unicum nella storia giudiziaria italiana. Pesante il giudizio su Arnaldo La Barbera, l’ex dirigente della Squadra mobile di Palermo che guidava le indagini: non vi è dubbio alcuno – scrivano i giudici – che egli fu interprete di un modo di svolgere le indagini di polizia giudiziaria in contrasto prima ancora che con la legge, con gli stessi dettami costituzionali. Egli, secondo i giudici, “pose consapevolmente in essere una lunga serie di forzature, abusi e condotte certamente dotate di rilevanza penale”. Poi però i magistrati specificano, si badi bene, che “gli elementi probatori analizzati non consentono di ritenere che La Barbera fosse concorrente esterno all’associazione mafiosa o che l’abbia agevolata favorendo il perdurare dell’occultamento delle convergenze dell’associazione con soggetti o di gruppi di potere cointeressati all’eliminazione di Paolo Borsellino e dei poliziotti della sua scorta”. Per i giudici nisseni La Barbera era “un anello intermedio della catena”.
Se resta essenziale risalire quella catena fino a comprendere chi ne fosse al vertice e magari le ragioni che animarono la congiura, perché di questo si tratta, i giudici ritengono, e la circostanza non è di poco momento, che comunque quel vertice non sia riconducibile a Cosa nostra. Fu pertanto congiura di Stato prima e quindi depistaggio di Stato dopo. Non poteva essere il solo La Barbera a tirare i fili, ma soprattutto perché tanto accanimento di Stato nei confronti di un suo autorevole servitore come Paolo Borsellino? A cosa egli poteva giungere nello svolgimento del suo lavoro, tanto da doverlo fermare con tanta urgenza e assumendosi così tanti rischi?
Nonostante la gravità delle affermazioni cui giunge il tribunale, non meno significativo è ricordare come il depistaggio messo in atto da La Barbera sia stato avallato da svariati pubblici ministeri e convalidato da numerosi giudici; circostanza che deve far riflettere, come scrive lo stesso tribunale, sulle possibili disfunzioni, sotto il profilo dell’accertamento della verità, di vicende processuali incentrate prevalentemente su prove di natura dichiarativa provenienti da soggetti che collaborano con la giustizia. Si è assistito al fallimento del sistema di controllo della prova al punto da determinare che in ben due processi, con tre gradi di giudizio ciascuno, non si sia riuscito a svelare l’orribile menzogna. Scarantino, lo si è scritto più volte, era un ladruncolo di borgata. Anche la magistratura, spiace doverlo sottolineare, in queste congiura ha le sue responsabilità e non sono leggere; magari prevalentemente colpose, ma già il non essersi accorti della falsità che si stava costruendo non appare una mancanza da poco.
Il tempo trascorso e la profondità della congiura rende l’ulteriore disvelamento delle persone coinvolte e delle cause di essa sempre più difficile, ma non possiamo arrenderci. L’attuale premier ha più volte evocato la figura di Borsellino come suo riferimento etico e morale. Faccia anche lei la sua parte. Tutti gli italiani di buona volontà facciano la loro parte per la ricerca della verità, anche solo continuando a divulgare le terribili circostanze che sono state acclarate dalla sentenza di Caltanissetta; circostanze che se non altro, dopo anni, hanno finalmente trovato un primo ufficiale riconoscimento giudiziario.
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