La storia del boss calabrese Emanuele Mancuso è emblematica e rappresenta un vero e proprio “caso”. Tutto ha inizio nella primavera del 2018, con l’arresto di Mancuso, 30 anni, esperto in narcotraffico. Al momento del suo arresto la compagna dell’uomo, Nensy Vera, è incinta e proprio questo evento lo spingerà a collaborare con la magistratura, per “la speranza di offrire a mia figlia un futuro diverso”. La notizia fa scalpore in quanto è il primo del suo clan a diventare un pentito e questo getta la sua famiglia nel panico. Il padre Pantaleone, come spiega La Stampa, scompare nel nulla con tanto di documento falso. Il fratello Giuseppe, già in carcere, dà di matto insultandolo e urlandogli dalla sua cella insulti e l’invito a fare un passo indietro. La madre e la zia convocano Nensy Vera che però in lacrime garantisce fedeltà: lo minacciano e tentano di convincerlo a tornare sui suoi passi usando anche la bambina neonata.
Proprio la piccola gliela fanno vedere il meno possibile, in foto ed in braccio al fratello Giuseppe che lo ha minacciato di morte. E con frasi come “Tuo fratello è ora ai domiciliari, ti aspettiamo tutti” oppure “Ti dirò ti amo solo quando tornerai a casa, altrimenti non mi interessa più di te”. L’uso cinico e spesso tragico dei figli per neutralizzare i pentiti è un classico del meccanismo mafioso.
BOSS MANCUSO PENTITO: FIGLIA CONTESA DALLA ‘NDRANGHETA, L’APPELLO
Il caso Mancuso non ha rappresentato una novità nè per la ‘ndrangheta nè per la procura di Catanzaro e i carabinieri. Attraverso chat, conversazioni telefoniche e corrispondenza, gli investigatori hanno ricostruito l’intera vicenda spiegando che “non c’è onore, non ci sono valori, non c’è umanità”. E così l’intera famiglia Mancuso, dalla compagna alla madre passando per la zia ed il fratello del boss pentito sono finiti a processo, imputati di violenza privata, favoreggiamento e altri reati aggravati dal metodo mafioso. Nel processo emergono due parti civili, lo stesso Mancuso e la stessa figlioletta di 30 mesi. In una lettera aperta Mancuso ha manifestato tutta la sua “frustrazione e preoccupazione per le sorti di mia figlia”. “Da padre non riesco a darmi pace”, scrive, preoccupato per la vita della piccola in ambienti ‘ndranghetisti ancora frequentati dalla madre.
Dalle chat della famiglia sarebbe emerso “l’interessamento della cosca alle sorti della mia bambina, usata come merce di scambio”, per questo Mancuso chiede che la figlia possa essere emancipata dal “maledetto cognome” e “strappata definitivamente dalle mani della ‘ndrangheta” per poter vivere in un ambiente sano. La lettera è indirizzata al tribunale dei minori di Catanzaro che però al momento ha deciso di tenere unito il rapporto figlia-madre. Per lo stesso tribunale la bimba sarebbe al sicuro in quanto collocata in una località protetta sotto la protezione della polizia.