Alla fine, Sleepy Joe pare essersi svegliato. Ci sono voluti solo cinque giorni della peggior ondata di maltempo mai registrata nello Stato e un blackout energetico senza precedenti prima che il presidente Usa dichiarasse lo stato di emergenza per il Texas e promettesse aiuti federali. Probabilmente, era troppo impegnato a promettere all’Europa protezione contro Cina e Russia in videoconferenza. Ma il disinteresse per i texani è stato bipartisan, visto che l’arcigno e combattivo senatore repubblicano Ted Cruz ha preferito partire per il caldo di Cancun, piuttosto che darsi da fare per lo Stato che rappresenta a Capitol Hill. Tutto il mondo è Paese, d’altronde. 



E i media? Anche qui i tempi di reazioni sono stati un po’ da bradipo, stranamente. Come mai uno Stato solitamente alieno da fenomeni meteorologici di freddo estremo non fa notizia se viene tramutato nella Groenlandia, forse Greta Thunberg e la sua ossessione per il cambiamento climatico sono passati di moda? Il Covid garantisce forse più audience e likes dei pinguini in pericolo e delle foche alla deriva? A occhio e croce, ci fosse ancora stato Donald Trump alla Casa Bianca, il Texas avrebbe subito un’invasione di inviati e corrispondenti degna della campagna di Russia. Ma c’è dell’altro, dietro. Qualcosa di paradossalmente più interessante, sistemico e grave del mero strabismo ideologico. 



Ce lo mostra questo grafico contenuto nello studio ad hoc della Cascend Strategy, il quale schematizza chiaramente la ragione scatenante del disastro energetico che ha paralizzato e lasciato al freddo e al buio una larga parte del Texas per oltre tre giorni, spedendo il costo dell’elettricità a qualcosa come 9.000 dollari per kilowatt/ora: il fallimento totale dell’eolico. 

Il freddo, infatti, ha completamente paralizzato le strutture che sfruttano il vento per l’energia e se non fosse stato per l’intervento del gas naturale, lo Stato sarebbe precipitato nel disastro assoluto. Attenzione, nessuna caccia alla streghe e difesa un tanto al chilo delle fonti non-rinnovabili. Le condizioni meteo erano così estreme da aver fatto collassare anche la rete del nat-gas, dopo due giorni di ultra-utilizzo e il Texas – come mostra il grafico – è ben felice del suo sistema misto di approvvigionamento energetico. Ma c’è un ma, grosso come una casa. E quel ma spiegherebbe a meraviglia il silenzio pressoché totale dei media non statunitensi sull’accaduto: nessuno osi disturbare il manovratore della transizione sostenibile. E non lo dico io, notoriamente cinico cultore di asfalto e miasmi industriali, ci ha pensato il Financial Times con un articolo il cui titolo già non lascia spazio a interpretazione: Green bubble warnings grow as money pours into renewable stocks. La bolla verde, signore e signori. E questi due grafici spiegano più di mille parole di cosa stiamo parlando, riferendoci all’acronimo più cool del momento per mercato e politica. ESG ovvero Environmental, Social and Governance, il nuovo mantra della sostenibilità totale che sta diventando una sorta di DOC o IGP obbligatorio per tutte le aziende che vogliano muovere anche un solo passo fra collocamenti, emissioni e quotazioni. 



E se il quotidiano della City, solitamente tardivo nel denunciare le bolle in formazione, arriva a un atto d’accusa così palese, c’è da chiedersi quale sia già oggi il livello reale di distorsione raggiunto dal comparto green della finanza. Non a caso, Larry Fink, amministratore delegato di BlackRock, ha dichiarato il mese scorso che il mercato sta subendo «uno scostamento tettonico» verso investimenti sostenibili. E i numeri parlano chiaro: i fondi globali legati ai princìpi ambientali, sociali e di governance hanno assorbito quasi 350 miliardi di dollari l’anno scorso rispetto ai 165 miliardi di dollari del 2019, stando a dati ufficiali di Morningstar. Tanto chiaro che il Financial Times ha deciso di sentire l’opinione anche della controparte, nella persona dell’amministratore delegato di Total, a detta del quale «le valutazioni nel settore delle rinnovabili sono arrivate a livelli folli». 

Direte voi, ovviamente tira l’acqua al suo mulino di inquinatore sistemico. Vero. Però occorre prestare attenzione a quanto dichiarato al quotidiano finanziario anche da Gordon Johnson, amministratore delegato della GLJ Research: «Penso che siamo al 100% in una bolla verde. Quasi tutte le società solari che copro con il mio lavoro di consulenza e accountability hanno registrato un peggioramento dei numeri, mentre le azioni sono triplicate… Questo non è normale». E tanto per mettere la questione in prospettiva: l’indice S&P Global Clean Energy, il quale replica il prezzo delle azioni di 30 società del comparto green, ha quasi raddoppiato il valore nell’ultimo anno e viaggia su un’espansione dei multipli di utile per azione di 41x, stando ai dati di Bloomberg. Al contrario, le azioni blue chip statunitensi sono aumentate di circa il 16% nell’ultimo anno e possono vantare un multiplo di “solo” 23 volte rispetto agli utili. E ancora: un recente documento di Morgan Stanley ha rilevato come un paniere di azioni verdi abbia visto i loro multipli P/E aumentare in media di 24 punti nel 2020, rispetto ai soli 2 punti per i parigrado di altri settori. 

E proprio parlando di eolico, croce e delizia del Texas congelato, il Financial Times fa l’esempio della compagnia danese Orsted, il prezzo delle cui azioni è quasi triplicato in soli tre anni, nonostante una crescita degli utili molto modesta. «C’è stato un periodo, circa sette o otto anni fa, in cui ogni fondo aveva Apple in portfolio. Oggi è un po’ così nei servizi pubblici con Orsted», dichiara Mark Freshney, analista di Credit Suisse. E non stupisce. Queste azioni sono state sostenute da un inflow infinito di denaro affluito in fondi cosiddetti sostenibili: soltanto quelli azionari che fanno riferimento al comparto hanno registrato più di 230 miliardi di dollari di afflussi lo scorso anno, sempre in base a dati di Morningstar. E, ovviamente, una raffica di Spac verdi ha invaso il mercato alla ricerca di obiettivi di acquisizione, sfruttando la mania imperante per questi veicoli speciali di finanziamento. 

«Inizialmente abbiamo riscontrato molto interesse per un numero limitato di nomi (ESG) che si sono comportati piuttosto bene – ha affermato Colin Rusch, analista di Oppenheimer, parlando con il giornale della City -. Ma nella seconda metà del 2019 fino allo scorso anno, abbiamo visto una base estremamente ampia di investitori che hanno iniziato a esaminare tutte le società sfruttate per mitigare il cambiamento climatico». Già così, a mio avviso, basterebbe. Ma è meglio mettere tutta la carne al fuoco, vista la delicatezza del tema e l’esercito a sua difesa che si trova schierato in ambito politico e mediatico, pressoché globale. Questi tre grafici finali mostrano infatti la magnitudo totalizzante del fenomeno con cui il mercato si trova a confrontarsi. Il primo mostra come il settore ESG non solo veda quell’acronimo-totem ormai determinante come richiamo per le allodole sulle earning calls societarie ma anche come non esista più tipologia di fondo al mondo che possa prescindere dalla priorizzazione nella composizione del proprio portfolio di nomi a vario titolo (garbato eufemismo) legati al comparto.

Il secondo grafico mostra plasticamente come l’universo ESG sia entrato di prepotenza nel mirino degli hedge funds e del trading algoritmico e ad alta frequenza, visto che i passive funds – di fatto, gestiti da computer – stanno investendo nel green più velocemente di quelli attivi, ovvero con preponderante componente umana. Tradotto, speculazione pura. L’ultimo grafico, poi, sintetizza l’intera vicenda. Mostra infatti i dieci principali detentori di quote dell’Etf di riferimento dell’universo ESG, i quali vantano a oggi un combinato di posizioni pari al 26,83% del totale. Vi paiono Onlus oppure Ong storicamente votate alla tutela ambientale o dei diritti dei lavoratori, magari ferme oppositrici della delocalizzazione della produzione in Asia? Pensate davvero che gli aerei e i furgoni che trasportano le merci di Amazon siano tutti ambientalmente compatibili? O che Apple e Microsoft non chiudano un occhio di fronte alle condizioni di lavoro nelle fabbriche del Far East di alcuni loro subfornitori di componentistica o assemblaggio? Proprio sicuri? 

Eppure, eccoli qui i magnifici 10 che credono così profondamente nei dettami ESG da monopolizzare l’Etf che ne traccia l’andamento attraverso le quotazioni dei titoli. Meglio fermarsi qui. Anche se, in realtà, sarebbe doveroso aprire il capitolo molto scottante dell’auto-regolamentazione a livello di rating e criteri di inserimento assets nei fondi e nei portfolio da parte dei rappresentanti del settore, quantomeno facendo riferimento alla saggezza popolare che alberga nel detto di non chiedere all’oste se il vino che vende sia buono. Ma quando il Financial Times, i cui inserzionisti hanno certamente forti interessi nel comparto, arriva a parlare chiaramente di green bubble, vuol dire che il limite è stato ampiamente superato. E non è già più sostenibile. Ma non ecologicamente o a livello di diritti, bensì finanziariamente e con riferimento a certi multipli da unicorni. 

Un’ultima domanda, alla luce di questo quadro non proprio edificante e della situazione italiana. Possibile che un interesse miliardario come quello che sta dietro al comparto ESG e al grande business della transizione ecologica sia alla base della scelta di Beppe Grillo di anteporre la nascita di un ministero ad hoc – sui cui concentrare tutta l’attenzione – e la presenza stessa di M5S nel Governo Draghi al rischio di scissione in seno al Movimento che un alla fiducia sta già comportando? Anche in questo caso, si è trattato di un mero ragionamento in base al criterio dei costi/benefici, come per la TAV? 

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