Heinz-Christian Strache non è un fulmine di guerra politico. Non lo è mai stato. È il degno erede designato della tradizione del suo maestro, Joerg Haider: piacione, decisionista, arrogante al punto giusto, populista ante litteram, spesso e volentieri millantatore. E quest’ultima “dote” è emersa in maniera clamorosa nel video che gli è costato la carriera politica e che ha sancito la fine del governo di coalizione di centro-destra austriaco, dopo soli due anni. Eh già, oltre il Brennero a settembre si tornerà a votare. Lo hanno deciso domenica il primo ministro, il popolare Sebastian Kurz, e il capo dello Stato, il verde indipendente Alexander Van der Bellen. A tempo di record, in effetti. Ma non c’è da stupirsi, né da evocare strani complotti.



Certo, il timing dell’accaduto – a poco più di una settimana dal voto europeo – può sembrare sospetto, ma qui c’è in ballo dell’altro, ci sono in gioco equilibri che riguardano anche l’Italia più di quanto possa sembrare. Non state a scomodare George Soros o il Mossad o chissà quale servizio segreto, il primo beneficiario (e, forse, non solo) dell’accaduto infatti è proprio Sebastian Kurz, astro nascente del conservatorismo europeo, novello David Cameron nel tentativo di rinverdire il culto del 40enne di successo alla Tony Blair (Matteo Renzi ci ha provato ma con esiti, almeno per ora, poco proficui).



Non più tardi di un mese fa, il Cancelliere aveva descritto in questi termini la convivenza al potere fra la sua OVP e la FPO di Strache: “Ho dovuto ingoiare molti bocconi in questi due anni ma era necessario per le fare le riforme”. Come dire e sottinteso: ora basta. E, guarda caso, non solo in tempi brevissimi un video degno di un film con Checco Zalone pone fine alla carriera della versione austriaca di Lando Buzzanca ne Il merlo maschio – se i russi di affidano a gente come Strache per controllare la politica europea, la Cia può dormire fra due guanciali -, ma, soprattutto, sancisce in quattro e quattr’otto la fine dell’esecutivo di coalizione. Senza battere ciglio, Kurz ha deciso che si doveva tornare alle urne: nessun rimpasto, nessun appoggio esterno. Al voto. E il presidente si è trovato d’accordo. Il perché, insieme a qualche ulteriore indizio su chi possa avere avuto tutto da guadagnare dallo scandalo, lo svela implicitamente questo articolo di Bloomberg, pubblicato ieri e che ci mostra come in due giorni il buon Kurz e i suoi Popolari abbiano guadagnato 4 punti percentuali nei sondaggi, arrivando al 38%.



Crisi e soluzione in meno di 48 ore. Efficienza asburgica. O, più che altro, palese dimostrazione che a Vienna qualcuno non stesse aspettando altro che la pubblicazione di quel video. La cui esistenza, temo, fosse nota a molti. Da molto tempo, risalendo all’estate del 2017. Ovviamente, i Gianni Riotta della situazione, dopo aver collezionato una figuraccia dopo l’altra sul tema delle presunte influenze russe sulla politica occidentale e ancora delusi dal nulla di fatto in cui si è sostanziato lo stesso rapporto Mueller sul famoso Russiagate, si sono lanciati in ennesimi, ridicoli j’accuse: ecco le prove, la Russia vuole controllare l’Europa attraverso i governi sovranisti! Beh, se così fossi, ribadisco che non avremmo a che fare con dei fenomeni da romanzo di Ian Fleming, i tempi del Kgb paiono lontani. Nessun appalto vinto, nessuno strano traffico concretizzato e, soprattutto, nessuna scalata da parte di oscuri oligarchi ai due principali quotidiani austriaci (sai che potere d’interdizione sull’opinione pubblica Ue!), al fine di dare vita a linee editoriali favorevoli al governo di centrodestra.

Forse perché tutto questo è stato solo il frutto di una messinscena, in cui Strache è caduto con tutte le scarpe per la debolezza più antica del mondo: una donna. Pur di permettere alla conoscenza con la presunta e scosciata nipote dell’oligarca russo di spingersi verso lidi che contemplassero la camera da letto, l’ex vice-cancelliere austriaco le avrebbe promesso anche l’intero guardaroba della Principessa Sissi in usufrutto gratuito: voleva fare sesso con la scollacciata estone sotto copertura, punto. Non a caso, il video che ha posto fine alla sua carriera non è stato inviato dalla fonte segreta ai due quotidiani in predicato di diventare le nuove Pravda delle Alpi, come sarebbe sembrato normale in un complotto fatto bene, bensì a due corazzate dell’editoria tedesca come lo Spiegel e la Suddeutsche Zeitung. E se c’è una cosa che la storia del Dopoguerra insegna, è che la grande stampa tedesca è storicamente più sensibile alle lusinghe dell’intelligence statunitense che a quella russa, al limite.

Inoltre, tutti a concentrarsi sulla coincidenza temporale fra scandalo ed elezioni europee. E nessuno che abbia fatto notare non solo i tempi record della crisi e del ritorno alla urne, ma, soprattutto, il fatto che sempre venerdì scorso, poco prima che scoppiasse lo scandalo, dagli Usa fosse arrivata una notizia che aveva permesso alle Borse del Vecchio Continente di tirare un enorme sospiro di sollievo, ancorché temporaneo. Con atto unilaterale, la Casa Bianca decideva di congelare per almeno sei mesi i dazi contro il settore automobilistico europeo, oltre che quelli su alluminio e acciaio con Canada e Messico. Come dire, lo scontro è con Pechino, mi servono alleati ed ecco il mio ramoscello d’ulivo: chi ci sta?

L’Austria, dopo due anni di buon governo, ha deciso che certe inclinazioni un po’ troppo estremiste e avventuriste, erano da mandare in soffitta: serve un governo moderato, popolare ma responsabile. E non uno che, per compiacere l’elettorato più estremo, legifera come ha appena fatto, su pressione del ministro dell’Interno, compagno di partito di Strache, al fine di vietare il velo islamico nelle scuole inferiori, non trovando però nulla da ridire su kippah ebraica o copricapo sikh, pur accampando la scusa della difesa della laicità. Et voilà, un video noto a tutti da tempo, deflagra sulla stampa tedesca. E l’eco dell’accaduto, almeno nei Paesi un pochino più politicamente evoluti del nostro, non hanno riguardato il farsesco pericolo russo, bensì il fatto che un enorme riequilibrio di poteri sia in atto. In primo luogo, fra Germania e Usa, dopo un gelo durato mesi e culminato solo due settimane fa con lo sgarbo senza precedenti di Mike Pompeo, titolare del Dipartimento di Stato, nei confronti di Angela Merkel, annullando all’ultimo un meeting ufficiale a Berlino per fare una capatina in Iraq dalle truppe.

Messaggio arrivato chiaro e forte al Bundestag, statene certi. Quantomeno, arrivato chiaro e forte alla Confindustria tedesca, la quale a sua volta ha mosso i propri sherpa verso il governo, chiedendo chiaro e tondo di finirla con prese di posizione autolesioniste come quelle sull’Iran e l’embargo verso Teheran. Visto che, a conti fatti, l’interscambio con gli ayatollah non vale l’export di automobili negli Usa. E questo articolo parla più al riguardo di mille mie parole.

E l’Italia? L’Italia pare in pessima posizione, non fosse altro per l’assurda (o, forse, strategica in base a qualche agenda nascosta e parallela, basti vedere lo sviluppo di queste ore nella vicenda Android-Huawei, più facente capo a orbite da intelligence che da scontro tecnologico-commerciale) accelerazione impressa al disallineamento verso Washington del memorandum con la Cina firmato non più tardi dello scorso marzo. Con grande esposizione mediatica del ministro Di Maio, ma, in realtà, nato su iniziativa di uno zelante quanto oscuro sottosegretario leghista. E, non so se avete notate, negli ultimi giorni il leader M5S si è tramutato in un moderato degno della vecchia DC dorotea, un vero e proprio pompiere delle intemperanze leghista: in primis, sullo spread, fino a pochi mesi fa definito come arma delle élites per tenere sotto scacco i popoli e ora venerato come termometro di buonsenso. E che l’aria sia cambiata in fretta, molto in fretta, lo dimostrano anche altre questioni, più sotterranee.

Sempre a ridosso di venerdì scorso, Mario Draghi è tornato in modalità salva-Italia, mettendosi contro mezzo board della Bce nel rimandare a data da destinarsi la conclusione dell’affaire Carige, ovvero la richiesta temporizzata per un aumento di capitale o per una soluzione di mercato o statale che chiuda la querelle dell’istituto ligure. Non a caso, riemersa a causa dell’addio senza preavviso del mega-fondo Usa, BlackRock. Se la Bce avesse imposto tempi stringenti, quasi certamente si sarebbe dovuti intervenire di corsa e con modalità d’emergenza come per le Banche venete o Mps, con cotè di Borse a picco. E il salvataggio con soldi pubblici di una banca non è certamente una carta che due partiti populisti avrebbero giocato volentieri a una settimana dal voto.

Tutto a posto, invece. Tutto risolto. O, anzi, come da tradizione consolidata, tutto rimandato. A quando? Quasi certamente, in autunno. Quando i nodi verranno davvero al pettine, quando arriverà il nostro “momento austriaco”. Perché signori, fra cambio in corsa delle regole di operatività post-Qe della Bce che ci stanno garantendo scudo dalle impennate vere dello spread e mosse come quella su Carige (garantita anche dai buoni uffici del sottosegretario Giancarlo Giorgetti, il quale ha passato parecchio tempo al telefono con Francoforte la scorsa settimana), Mario Draghi si è esposto parecchio in difesa di un governo che gli è ostile e che, almeno in casa leghista, nelle piazze accomuna i banchieri ai barconi e ai buonisti, ma, nelle segrete stanze di palazzo Chigi, con i bancheri ci parla eccome, chiedendo tempo e flessibilità. Quel credito andrà ripagato, in primis verso la Bundesbank, grande azionista di maggioranza della Bce, chiunque sarà il successore di SuperMario dal prossimo novembre.

Il pallino dell’Eurotower sarà nelle mani di Berlino, più facilmente attraverso un proxy dei falchi nordici che direttamente con un governatore teutonico. E allora, nel medio periodo, la musica sarà destinata a cambiare. Perché Mario Draghi ha imposto davvero tanto a livello di difesa del suo Paese, tanto che dopo l’intervento di mutazione in corsa della guidance sui tassi degli scorsi mesi di novembre e dicembre, i money markets oggi prezzano al 40% addirittura un taglio dei tassi da parte della Bce entro il primo trimestre del 2020. Esattamente come la Fed dopo lo spavento natalizio degli indici azionari in crollo: scusate, abbiamo scherzato. Ma si sa, certi favori costano cari. E certi debiti, vanno sempre onorati.

Cosa dobbiamo attenderci, quindi, un Mario Draghi premier tecnico di un governo che nasca dalle ceneri di quello giallo-verde, con chiaro mandato di rimettere in riga i conti italiani? La cosa non mi stupirebbe, ma potrebbe anche vedere in prima fila, come poster boy, qualcuno che operi su mandato diretto del governatore della Bce (e del Colle), lasciando lui dietro le quinte. Un po’ burattinaio, un po’ parafulmine, un po’ padre nobile. Comunque sia, non pensiate che l’Italia possa usufruire di altri sconti o altro trattamento di favore: nonostante le balle che sovranisti di vario ordine e grado vanno ripetendo nei talk-show (e, purtroppo, a volte anche su queste pagine), finora la Bce ha giocato con la maglietta azzurra della nazionale, salvandoci palesemente le terga dai mercati.

Se però vogliamo un trattamento alla Strache, basta andare avanti a slogan, proclami e pagliacciate in campo economico o di politica estera. Come ha dimostrato l’atteggiamento Usa verso l’export tedesco di auto, sentimenti e alleanze in un periodo simile possono mutare molto in fretta, quasi nell’arco di ore (soprattutto, va aggiunto, se Deutsche Bank monitora da anni le transazioni di Donald Trump e del genero). Ma possono mutare anche in senso negativo. Perché in seno a un’alleanza a due, c’è sempre qualcuno di non indispensabile e sacrificabile, come ci insegna il caso austriaco. E la mutazione quasi genetica della linea politica di Luigi Di Maio delle ultime settimane, pare parlare chiaro in tal senso. Molto chiaro. Il Pd, nel frattempo, attende.