Caro direttore,
“La vecchia fiamma” – ieri cubitale sulla prima pagina di Repubblica, su un primissimo piano di Giorgia Meloni – ha provato a ricalcare uno dei tanti titoli memorabili del vecchio Manifesto, che strappavano quasi sempre un sano e raffinato riso politico-intellettuale; che erano vero “giornalismo al cubo”, professionale anche nella faziosità. Come un corsivo di Fortebraccio sulla prima dell’Unità d’epoca, un Controcorrente di Indro Montanelli sul suo Giornale, una vignetta di Giorgio Forattini sulla Repubblica di Eugenio Scalfari o di Emilio Giannelli, tuttora in servizio al Corriere della Sera.
Invece l’irridente “vecchia fiamma” di ieri era un ghigno verde e faceva ridere poco. Aveva fatto ridere di più il salace “Patata bollente” vergato sulla prima di Libero da Vittorio Feltri sul volto del sindaco M5s di Roma, Virginia Raggi. E quella volta il bombing contro il preteso “odio sessista” di Feltri scattò immediato, corale, completo ed esemplare nei suoi esiti: una condanna penale per diffamazione e perfino un processo disciplinare da parte dell’Ordine dei giornalisti.
Oggi un animus sessista meno satirico e più ideologico sembra emergere come estrema arma politico-mediatica della sinistra italiana, di cui peraltro l’identità è ormai in aperta discussione all’interno della stessa sinistra: in previsione di una sconfitta elettorale ennesima. Ed è una sconfitta in cui l’imbarbarimento del linguaggio tradisce un fallimento politico-culturale. Di sex hating si mostra infine capace una sinistra autoproclamata da sempre paladina unica – oltre che di una pretesa civiltà democratica “antifascista” – dell’emancipazione femminile e delle pari opportunità.
Nelle liste Pd in preparazione per il voto del 25 settembre non c’è invece una sola “quota rosa” in serio predicato se non per la presidenza del Consiglio, almeno per un ministero di peso. Solo “veline politicamente corrette”. Ma il primo passo falso di Enrico Letta non è stato forse quello di aver rinnovato un anno fa la segreteria “dem” scordandosi di inserire donne? A sua parziale scusante c’è stato il fatto che di candidate credibili per la stanza dei bottoni del Pd odierno – per statura e consenso interno – non ce ne sono. Perfino a fianco di Matteo Renzi era comparsa una figura come quella di Maria Elena Boschi. E stiamo comunque parlando di un partito erede del Pci, che ha espresso Nilde Iotti, presidente della Camera e seria candidata per il Quirinale.
Iotti era stata d’altronde in gioventù la compagna del líder máximo Palmiro Togliatti (chissà se ora vedremo Michelle Obama ritentare la corsa “dem” alla Casa Bianca sulle orme fallimentari di Hillary Clinton). Giorgia Meloni, invece, è leader di un partito che ha fondato lei. Non come Marine Le Pen che l’ha ereditato dal padre; e neppure come Angela Merkel, chiamata a pilotare un “partito della Nazione” fondato da Konrad Adenauer e rifondato da Helmut Kohl.
Meloni è forse più avvicinabile a Liz Truss, ministro degli Esteri a Londra, che in questi giorni sta combattendo per la premiership inglese e la leadership dei Tory. Che però resta una forza politica con tre secoli di storia e ha già affidato il timone a due donne (la prima è stata Margaret Thatcher). Truss, 47 anni, è entrata per la prima volta in Parlamento a 35 e due anni dopo ha avuto il suo primo incarico di una lunga gavetta di governo. La leader FdI, che di anni ne ha 45, ha esordito come deputata a 29 anni e a 31 era ministro (il più giovane nella storia dell’Italia unita). Oggi è anche leader del polo European Conservatives and Reformists all’europarlamento (fino alla Brexit ne hanno fatto parte anche i Tory). Dov’è una ministra del Prodi 2 o del Letta 1 o una dirigente del Pd veltroniano ancora sulla breccia nel 2022, candidata alla guida del Paese?
Qualcuno potrebbe forse menzionare Emma Bonino: per la quale, tuttavia, il Pd è sempre stato essenzialmente un taxi elettorale. Senza i voti dem (o in passato anche quelli del centrodestra) la leader radicale difficilmente sarebbe entrata in Parlamento.
La vera icona femminile della sinistra ha 91 anni: è la senatrice a vita Liliana Segre. Che non è iscritta al Pd, ma si è resa protagonista – sotto lo sguardo attento del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che l’ha nominata – del vero discorso politico del “ribaltone” del 2019. È stata lei a lanciare a palazzo Madama contro il leader della Lega Matteo Salvini la fatwa di “neonazismo”: il teorema in base al quale, semplicemente, il centrodestra sarebbe una forza “paria”, priva di cittadinanza nella democrazia nazionale; e i suoi elettori ed esponenti non avrebbero gli stessi diritti costituzionali degli italiani che votano i partiti del centrosinistra.
È stata la senatrice a consentire tacitamente a Repubblica di orchestrare una campagna “contro l’odio nero” su una fake news: che il suo account mail fosse stato preso di mira da centinaia di messaggi di odio. Ed è stata su questa scia che la Segre si è fatta promotrice di una “commissione parlamentare sui fenomeni di odio”, peraltro rimasta fantasma anche nei suoi recenti esiti di fine legislatura. Dopo settimane di silenzio sull’intera crisi politica (ieri anche sul ballon d’essai di Silvio Berlusconi sulle possibili dimissioni di Mattarella) la senatrice ha dato segni di risveglio proprio su Giorgia Meloni: ma non per difendere una collega parlamentare (eletta) oggetto di un’escalation mediatica di odio a sfondo sessista; ma per impartirle una consueta lezione di superiorità morale. Dandole l’ordine di cambiare il simbolo di FdI in campagna elettorale: naturalmente “per cominciare”.
Chissà quanti vincoli è convinta di poter porre la senatrice all’incarico a Meloni di formare un nuovo governo dopo un voto democratico a lei favorevole. Un voto non diverso da quello che in Israele, all’inizio di novembre, potrebbe riportare alla guida dell’esecutivo di Gerusalemme Bibi Netanyahu, padre-padrone della destra nazionalista, anti-palestinese, anti-Usa “dem”, filorussa e filocinese.
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