La questione di Breuil-Cervinia – che andrebbe risolta con un po’ di buonsenso – rischia di aprire un vaso di Pandora che solo chi ha lavorato nelle realtà degli enti locali riesce ad immaginare.

In campo di nomi (e toponimi) gli italiani sono infatti specialisti nel litigare.

Cominciamo con il dire che una motivazione delle regioni a statuto speciale – soprattutto al Nord – fu proprio per la questione linguistica, non solo in Alto Adige (o Südtirol) ma anche in Friuli e nella Vallée.



Persa la guerra, l’Italia si trovò infatti a rischio di perdere parte del territorio e la soluzione fu quella di concedere autonomie.

Il problema è che se a Bolzano e dintorni si parlava da sempre tedesco prima del ’18, in Friuli c’era effettivamente una piccola minoranza slovena, ma il “Furlan” è diventato oggetto di culto in tempi ben più recenti. Sta di fatto che se oggi passate da Udin (non Udine!) troverete tutti paesi chiamati con il loro nome italiano e – appunto – “Furlan” ad esso equiparato. Della toponomastica si è poi impadronita la Lega (quando ancora era “Lega Nord”) e su migliaia di cartelli stradali notturni buontemponi hanno cambiato i nomi dei paesi nella loro terminologia dialettale con “doppio nome” più o meno ufficiale quando un paese diventava a trazione leghista. Dell’Alto Adige s’è già detto, con l’aggravante che lì nel 1918 l’italiano appunto non lo parlava nessuno – salvo che a Bolzano città e giù verso il Trentino – e quindi il fascismo è andato giù pesante nell’italianizzazione forzata, non solo dei toponimi cittadini ma anche delle vette alpine e perfino di molti cognomi. Risultato che, dopo gli accordi De Gasperi-Gruber (che permisero di confermare pacificamente il confine al Brennero) l’Italia cedette su tutta la linea per la questione linguistica: una battaglia persa per la comunità italiana altoatesina di cui ormai ci si è fatti una ragione, ma che per decenni ha permesso prima al Msi e poi ad Alleanza Nazionale di raccogliere la maggioranza dei voti “italiani”.



Diverso il caso della Valle d’Aosta, con i cugini transalpini che, pappatisi il Moncenisio e la valle di Tenda, un pensierino serio ad Aosta e dintorni ce lo fecero pure, stoppati dall’immediato riconoscimento di autonomia per tutta la valle giù fino a Pont-Saint-Martin, appena sopra Ivrea.

Il problema è che in Valle il francese non lo parlava e non lo parla quasi nessuno e quindi fu soprattutto una questione di distribuzione di interessanti agevolazioni economiche. Personalmente non credo che gli aostani avessero ed abbiano più diritti (e relativi contributi) degli abitanti di montagna della Valtellina o dell’Ossola, fatto sta che sono stati accontentati e da allora nessun più ha parlato di secessione.



Ma il fuoco cova sotto la cenere e non è solo questione di nomi. Una riforma seria sarebbe una drastica riduzione degli oltre 8mila comuni italiani.

Il fascismo – sono i vantaggi delle dittature – operò senza grandi discussioni una robusta riforma amministrativa cancellando migliaia di piccoli comuni ed anticipando (va detto) molte scelte che furono poi della riforma Bassanini (anni 90), tesa a ridurre il numero di comuni ed accorpare servizi. Tutto bene salvo che nel 1945, riottenuta la libertà, molte comunità insorsero reclamando la loro passata autonomia e fu un “nuovo corso” di riaperture civiche soppresse dal bieco regime.

Capita così che in Piemonte ci siano oggi oltre mille comuni, in alcuni dei quali, pur sommando tutti gli abitanti, si riesce con difficoltà a mettere insieme un consiglio comunale.

Poi ci furono le epurazioni: Littoria divenne Latina (anche se pochi sanno che si mantenne la vecchia denominazione nelle targhe automobilistiche che infatti sono rimaste ancora oggi LT e non LA, visto che il LI era occupata da Livorno) e si pose il problema con le altre città “fascistissime” nate dal regime.

Chi scrive è di Verbania, che il 4 aprile del 1939 “Con decreto di S.M. il Re e Imperatore e volere del Duce” sorse sulle rive del Lago Maggiore (il “Verbanus” latino, appunto) unendo Intra con Pallanza, così come Imperia fuse in un unico comune Oneglia con Porto Maurizio.

“Che fare?”, si chiesero a Verbania dopo il 25 aprile e salì il dibattito finché si decise: referendum! Per la precisione a chiederlo non furono i due centri principali ma un altro comune “accorpato”. Risciogliersi o meno divenne quindi oggetto di battaglia politica, ma in chiave trasversale. La Dc del tempo, infatti, fu per la secessione, ragionando che se la parte “operaia” della città si fosse staccata dal capoluogo avrebbero potuto controllare le zone centrali, mentre altrimenti la maggioranza rischiava di restare per decenni (come è stato) al fronte delle sinistre.

Si votò e vinse la proposta di nuova divisione territoriale, ma per formalizzarla bisognava approvare una legge che infatti approdò in parlamento. Si andò avanti per anni tra rinvii ed accelerazioni, poi finì la legislatura e nel ’53 nessuno la ripresentò; così, alla fine, poco alla volta non ne parlò più nessuno e Verbania rimase, complice una proposta di medaglia d’oro per il periodo partigiano che – in caso di scioglimento – non si capiva bene a quale frazione sarebbe finita.

Se si parla di nomi l’esperienza insegna comunque che è meglio girare alla larga: a Breuil-Cervinia sono avvertiti.

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