L’alternativa sembrerebbe di facile soluzione: da una parte i profitti delle aziende produttrici di vaccini, dall’altra la rinuncia alla proprietà intellettuale a vantaggio di una maggiore produzione e distribuzione, innanzitutto ai paesi che sono più indietro. Ma non è così semplice, perché i maggiori problemi non stanno nella gestione dei brevetti, ma del processo produttivo.
Che nel caso dei vaccini è complicatissimo, perché assomma centinaia di componenti che devono rispondere ad alti standard qualitativi e che provengono da una filiera globale di forniture.
E così, se Biden aveva rapidamente aperto alla liberalizzazione dei brevetti ottenendo adesioni in tutta Europa, a questa prima iniziativa ha subito fatto seguito un rallentamento, dettato, così sembra, da una maggiore prudenza. La stessa mostrata da Mario Draghi: “Liberalizzare il brevetto non garantisce la produzione di vaccini, che è molto complessa. Poi la produzione dev’essere sicura, la liberalizzazione dei brevetti non la garantisce” ha detto il premier al termine del vertice di Porto.
“Credo che sia meglio aumentare progressivamente le quote di export mano a mano che cresce la capacità produttiva” dice al Sussidiario Paolo Quercia, docente di studi strategici nell’Università di Perugia. Quercia definisce la mossa di Biden “geo-populista” ed esprime dubbi su una liberalizzazione “prima di aver messo in sicurezza le rispettive società”.
Biden ha aperto alla liberalizzazione dei brevetti sui vaccini, definiti “bene comune” giovedì scorso da Draghi e von der Leyen. Eppure in un primo tempo Biden si era dimostrato contrario. Perché questa svolta?
Teniamo presente che l’annuncio per il momento è tanto politico quanto generico, accolto con freddezza non solo da altri Paesi occidentali, ma dalla stessa comunità scientifica oltre che, naturalmente, dal mondo farmaceutico. Direi che è una mossa geo-populista, con l’obiettivo di aumentare il soft power degli Usa in Africa ed in Asia, o in tutti quei Paesi che in questi mesi in cui gli Usa procedevano con la vaccinazione di massa della propria popolazione vedevano solo Cina e Russia offrire loro i vaccini.
Quali implicazioni ha questo rapporto tra geopolitica e vaccini?
Immunizzare un’intera popolazione con un vaccino o con un altro vuol dire essere inclusi o esclusi da una più ampia area vaccinale globale, visto che i vaccini sono autorizzati da autorità sanitarie diverse. E i vari pass che regoleranno gli spostamenti potranno rappresentare altrettanti confini di carattere sanitario, che però rischiano di assumere un più ampio senso politico.
Ci sono anche posizioni contrarie, come quelle del Ceo di Pfizer Albert Bourla e della cancelliera Merkel: il fattore limitante non sarebbero i brevetti, ma il rischio di fare prodotti di serie B. Sono loro i “cattivi” di questa partita?
Non credo che sia una storia di buoni e cattivi, ma di interessi macro o micro. E chi ha degli obiettivi e degli interessi più ampi non necessariamente è più buono di chi ha degli obiettivi limitati. Credo che lo scetticismo della Merkel sia da attribuire, oltre al fatto che vi sono importanti aziende farmaceutiche tedesche coinvolte nella produzione dei vaccini, alla situazione che vede l’Europa in ritardo rispetto agli Usa per raggiungere una vaccinazione di massa della popolazione. Ricordiamo che in queste mesi l’Europa ha esportato molti vaccini mentre dagli Usa ne sono usciti ben pochi.
Se la scelta degli Usa è legata a ragioni di soft power, qual è l’obiettivo di Biden?
Credo che l’iniziativa faccia parte della fase di competizione con Mosca e Pechino, e di fatti è uscita a ridosso del duro messaggio indirizzato a Russia e Cina dai ministri degli Esteri del G7.
Una ipotetica liberalizzazione renderebbe il mondo più sicuro?
Penso che sarà nel medio periodo un esito necessario. Ma arrivarci prima di aver messo in sicurezza le rispettive società e di aver verificato la sostenibilità produttiva di una liberalizzazione non sono sicuro che sia il metodo migliore.
Quale sarebbe la strada giusta?
Credo che sia meglio aumentare progressivamente le quote di export mano a mano che cresce la capacità produttiva. E la capacità produttiva, che è un fattore industriale e dunque economico, cresce se i vaccini generano dei ritorni.
Ha senso o no a questo punto per l’Italia investire nella produzione di un proprio vaccino?
Penso che l’investimento migliore sia in capacità produttive. Di quello c’è drasticamente bisogno, oltre ovviamente all’elaborazione di vaccini sempre più sofisticati e sempre più adatti a coprire le varianti.
(Federico Ferraù)
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.
SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI