Dopo aver affrontato le possibili problematiche commerciali che molto probabilmente insorgeranno tra Regno Unito e Unione europea, gli effetti generati dall’introduzione della Brexit, che è una sorta di “deal sul no deal”, si faranno sentire anche sui mercati finanziari e sul ruolo della City di Londra. Come spiega in questa intervista Giuseppe Di Gaspare, ordinario di Diritto dell’economia all’Università Luiss di Roma.



Professore, lo scivolone della Brexit è stato ed è un colpo duro per la City?

Indubbiamente. I flussi di capitale rivenienti dalla prestazione dei servizi finanziari erano circa il doppio delle uscite per le importazioni commerciali, come ricordava in una trasmissione della Bbc prima del voto l’ex premier Cameron, cercando di convincere una platea di recalcitranti compatrioti a farsi carico del mantenimento di questo surplus finanziario per le fortune della City. Il settore finanziario è valutato a circa il 12% del Pil ed è essenzialmente concentrato a Londra, assicurando anche con l’indotto la prosperità della metropoli.



Terreno dunque nevralgico. In questo ambito le negoziazioni sono ancora aperte?

Sì e saranno i dettagli dell’accordo ipotizzato nel Memorandum of understanding che daranno la misura effettiva di quello che rimarrà dell’apertura del mercato finanziario europeo alla finanza anglosassone. Non ci sarà più il passaporto europeo che ha consentito agli intermediari anglosassoni di operare in house nel mercato finanziario anche in euro. Il risparmio europeo attira i servizi di investimento, consulenze, intermediazioni, assicurazioni e riassicurazione degli operatori della City, che non punta certo al retail, ma a mantenere la centralità nel mercato all’ingrosso dei prodotti e servizi finanziari della consulenza e della assicurazione e riassicurazione degli intermediari, intermediari e banche commerciali dell’Eurozona.

Non sarà semplice recedere e rescindere… 

La City in materia ha dato sempre prova di capacità di adattamento, di ingegneria finanziaria e di creatività giuridica. Provare a tenere aperte le maglie della regolazione finanziaria trovando soluzioni ed espedienti che salvaguardino la interoperatività del Regno Unito con lo spazio finanziario europeo non è un’impresa impossibile.

Come si può fare?

Giocando sui funambolismi giuridici e sulla duttilità organizzativa dei gruppi finanziari e delle società di consulenza e di investimento che stanno già diversificando le attività in euro accettando di operare con filiali nella zona euro che si adeguano alle regole Ue, mantenendo comunque aperti i canali finanziari e i collegamenti con le capogruppo offshore nella City.

Insomma, un gioco on/offshore, evitando di incappare nel perimetro di regolazione dell’Esma e soprattutto della Bce?

Su questo fronte delle relazioni finanziarie i partner europei sono divisi da aspettative divergenti.

Perché, secondo lei, il sistema finanziario italiano è stato affetto finora da una cronica anglofilia?

Gli inglesi ci considerano non a torto una specie di colonia. Basti pensare all’acquisizione per incorporazione della privatizzata Borsa Italiana Spa nell’LSE e il trasloco in quella sede del lucrativo mercato dei titoli telematici, senza che la Consob abbia mai avuto qualcosa da dire al riguardo, nonché all’attuale cessione della stessa società ad Euronext, operazione anch’essa passata sulla nostra testa e alla quale ci siamo agganciati con una costosa  partecipazione minoritaria di Cassa Depositi e Prestiti.

Cosa suggerisce?

Sarebbe il caso di introdurre una cabina di regia, che segua in modo coordinato tutti i vari dossier di questa fase di transizione anche a Bruxelles. Banca d’Italia e Consob quanto meno dovrebbero maggiormente coordinarsi.

Non lo stanno facendo?

Mentre Banca d’Italia appare giustamente orientata a imporre un obbligo di stand still, nella fase di transizione, alle banche del Regno Unito operanti in Italia sul mercato retail, la Consob ha appena dato un segnale discordante, rilasciando una nuova autorizzazione per servizi di consulenza a una filiale di una banca d’investimento della City con sede in Italia.

Se la piazza londinese non sarà più il trampolino per l’accesso al mercato finanziario dell’Eurozona, il trasloco di banche e intermediari extra-europei verso il continente è destinato ad accentuarsi. Ne trarremo beneficio anche noi?

Da questi riposizionamenti in atto nell’Eurozona il nostro paese non sembra sia stato finora in grado di coglierne le opportunità o di trarne vantaggi come nel caso del trasferimento della sede dell’Ema ad Amsterdam invece che a Milano. Immediatamente chiusasi la finestra aperta dall’annuncio della vittoria della Brexit al referendum, con l’incontro tra  Renzi, Merkel e Macron e l’appello a serrare le fila dei principali soci fondatori dell’Unione, è ripreso per noi un processo di marginalizzazione – di cui la negoziazione di Brexit potrebbe essere solo un episodio – del quale purtroppo la politica italiana, distratta dalla gara per chi si arrampicherà sullo scivoloso albero della cuccagna del Recovery Fund, sembra più che ignara assolutamente indifferente.

(Marco Tedesco)

(2-fine)