Tra le numerose crisi nell’attuale convulso quadro geopolitico, una particolare rilevanza per l’Europa ha quella provocata dal referendum del 2016 che ha portato alla cosiddetta Brexit. Dopo tre anni, le discussioni tra governo inglese e Ue hanno portato a soluzioni rigettate dal Parlamento britannico, con la conseguente dilazione delle trattative fino al prossimo 31 ottobre. Il risultato è che i britannici hanno potuto partecipare alle scorse elezioni europee, ma, se a novembre il Regno Unito sarà fuori dall’Unione, i loro rappresentanti dovranno abbandonare i propri seggi. Questi verranno redistribuiti tra gli altri Stati, modificando così i già problematici rapporti all’interno del Parlamento stesso.



Il gesto dei deputati eletti nel partito Brexit di voltare le spalle all’esecuzione dell’inno europeo è stato senza dubbio riprovevole, ma non può far dimenticare il notevole successo del partito alle elezioni europee. Né il parallelo insuccesso di Conservatori e Laburisti, entrambi ormai in profonda crisi e divisi al loro interno, in particolare i Tories dopo le dimissioni di Theresa May e l’avvio della laboriosa procedura per la scelta del suo successore, alla guida del partito e come primo ministro.



La selezione è ormai giunta all’ultima fase e, dopo la fine delle votazioni dei circa 160mila iscritti al Partito Conservatore, il 23 luglio si prevede la proclamazione del vincitore tra i due candidati rimasti in gara: Boris Johnson e Jeremy Hunt. Johnson era stato nominato ministro degli Esteri da Theresa May nel 2016, ma si era poi dimesso nel 2018 in disaccordo con la May sulle soluzioni concordate con Bruxelles. Al suo posto era stato nominato il suo attuale sfidante, Jeremy Hunt.

Al centro del dibattito rimane la Brexit. La posizione di Johnson è molto netta: alla fine di ottobre, il Regno Unito uscirà dall’Unione Europea, con o senza accordo. Jeremy Hunt invece, come Theresa May, votò per rimanere nell’Ue, ma ha poi cambiato parere, dichiarando che in un eventuale secondo referendum avrebbe votato per l’uscita. La ragione addotta è “l’arroganza della Commissione europea” nelle trattative sulla Brexit, arrivando a paragonare l’Ue all’Unione Sovietica. Tuttavia, Hunt ritiene indispensabile continuare le trattative e considera l’uscita senza accordo come l’estrema soluzione.



Malgrado la maggiore esperienza di governo di Hunt, i sondaggi danno favorito Johnson, la cui netta e coerente posizione sulla Brexit trova apparentemente maggiore consenso tra gli iscritti al Partito Conservatore. Boris Johnson è un personaggio molto più “colorito” e discusso di Hunt, ma sembra corrispondere a un certo nazionalismo, soprattutto inglese, anche un po’ revanscista, nei confronti dell’Ue. Va ricordato che il referendum non solo spaccò a metà il Regno Unito, tra Brexiteers (51,89%) e Remainers (48,11%), ma riportò alla ribalta le divisioni tra le varie parti del Regno. A favore della permanenza nell’Unione, infatti, si espressero l’Irlanda del Nord, soprattutto per il voto cattolico, la Scozia e la Grande Londra, contrari il resto dell’Inghilterra e il Galles.

L’Irlanda del Nord è un punto particolarmente nevralgico, perché la sua frontiera con l’Eire diventerebbe il confine terrestre tra Uk e Ue. Ogni introduzione di controlli e limiti all’attuale libera circolazione rischierebbe di causare una ripresa degli scontri tra indipendentisti e unionisti. Tra l’altro, il Dup, il partito unionista, è attualmente necessario ai Tories per mantenere la maggioranza nel Parlamento. Quello irlandese è stato forse il problema più difficile nelle trattative e non ha ancora trovato una  soluzione che soddisfi tutte le numerose parti in causa. La proposta di Bruxelles di uno status speciale per l’Irlanda del Nord, che la differenzierebbe dal resto del Regno, trova decise opposizioni nel resto del Paese. Gli indipendentisti scozzesi hanno già ipotizzato un nuovo referendum per l’indipendenza, se le stesse condizioni di favore non venissero applicate alla Scozia.    

Nel dibattito si è inserito anche Donald Trump, che si è schierato apertamente in favore di Boris Johnson, intervento che è difficile non considerare una presa di distanza dall’Unione Europea. Né si può considerare accidentale la pubblicazione  pochi giorni fa su un quotidiano inglese di un rapporto riservato dell’ambasciatore britannico negli Usa, non si sa ancora da chi messo in circolazione. L’ambasciatore, Sir Kim Darroch, esprime giudizi molto negativi su Trump, che ha subito reagito da par suo. L’incidente diplomatico ha causato le dimissioni di Sir Darroch, ma è stato immediatamente utilizzato contro Johnson, accusato di non aver difeso l’ambasciatore, ovviamente per compiacere il suo sponsor americano.

Sembrano decisamente passati i tempi in cui, tutto sommato, era facile distinguere gli amici dai nemici e, perciò, i “buoni” dai “cattivi”. Questo sembra piuttosto il tempo del tutti contro tutti e non pare un grande passo avanti.