Ieri i mercati hanno festeggiato le ultime novità sulle tensioni tra Cina e Stati Uniti e, soprattutto in Europa, il “rinnovato ottimismo” sul raggiungimento di un accordo tra Unione europea e Gran Bretagna che eviti l’incubo di un no deal. Il negoziatore dell’Unione europea, Michel Barnier, ha ricevuto da tutti e 27 i Paesi membri l’assenso a negoziazioni accelerate per arrivare a un accordo prima di giovedì prossimo. Donald Tusk ha parlato di segnali positivi. In particolare a sbloccare lo stallo sarebbe un accordo sul confine in Irlanda che soddisferebbe sia l’Unione che la Gran Bretagna. Dopo tre anni e mezzo di novità non ci azzardiamo a dare per finita questa saga che continua ad avere molte possibili conclusioni da un’uscita senza accordo fino a un secondo referendum di cui in realtà nessuno riesce a prevedere il quesito.



Quello che vorremmo sottolineare dopo le ultime novità è che l’uscita della Gran Bretagna sembra non sia mai stata così vicina. È una novità che accelera il ripensamento dell’Unione europea che perderebbe un pezzo importante con una visione del mondo che è molto diversa da quella del centro continentale “franco-tedesco”. L’Europa è una costruzione che ha, in un certo senso, prosperato in un mondo che oggi non c’è più e che rischia di finire se le politiche americane di contrasto alla Cina e di riequilibrio degli squilibri commerciali continuano come potrebbe accadere anche con un nuovo presidente nel 2020. Fino a oggi abbiamo visto il tentativo di continuare a mantenere uno status quo con gli osservatori inglesi che osservano basiti la recessione tedesca e si interrogano se veramente la Germania pensi che non è cambiato niente o che possa continuare a fare quello che ha fatto negli ultimi 20 anni con un’economia che oggi subisce la competizione dei cinesi su tutta la linea.



Un’Europa senza Gran Bretagna per noi italiani significa una presenza ancora più forte del centro franco-tedesco con una ricetta economica che non funziona e che ha ridotto l’Italia, più che complice, a una sorta di colonia costretta a recuperare miliardi sul ceto medio persino in questa fase economica globale e in questo contesto internazionale. Siamo alle solite per cui nemmeno il migliore dei governi italiani potrebbe risollevare un Paese che si avvia al fallimento all’interno di questo paradigma.

Se gli inglesi escono dall’Unione europea ci si dovrebbe chiedere come l’Italia intenda affrontare le richieste di un esercito europeo o la guerra commerciale. Oggi va ancora di moda l’idea che l’Europa si possa cambiare da dentro, ma sinceramente il programma comincia a essere davvero poco credibile. Anzi, quello a cui assistiamo in questa fase, dalle rigidità tedesche fino all’atteggiamento francese su tanti dossier internazionali, ci fa pensare che le istituzioni europee al servizio degli europei non siano nel programma di nessuno. Al limite possono essere un moltiplicatore di potenza per Francia o Germania.

Rimane in sostanza l’ipotesi che i britannici abbiano abbandonato per tempo un progetto che non è modificabile, né proponibile nel nuovo mondo e in sostanza irrimediabilmente obsoleto. È una scommessa che forse perderanno, ma che non è affatto folle come ci è stato fatto credere in analisi che partono dal presupposto non dimostrato dell’eternità dell’Unione europea. L’Italia che non cresce, con un debito in costante salita, costretta da un centro franco-tedesco che persegue i suoi interessi, e che non può risollevarsi causa austerity, con la costante di una classe politica che raramente ha fatto gli interessi “del Paese”, rimane il punto debole della costruzione. Servirebbe prima di tutto la comprensione di quello che sta accadendo e una scelta accortissima degli alleati.