Il risultato delle recenti elezioni nel Regno Unito dà adito a numerose considerazioni per i suoi riflessi interni e sulla scena politica europea, come già illustrato da diversi articoli sul Sussidiario.

Innanzitutto, rimane confermata la difficoltà degli europei “continentali”, e dei loro opinionisti, a capire fino in fondo i britannici. Tra l’altro, la più antica democrazia europea utilizza un sistema elettorale piuttosto discutibile agli occhi di molti continentali abituati a sistemi più o meno proporzionali. Il maggioritario uninominale a turno unico, confermato dai cittadini in un referendum del 2011, fa sì che chi in una circoscrizione guadagna la maggioranza anche solo per  un voto vinca il seggio. Ciò svincola il numero dei seggi dall’entità dei voti globalmente ricevuti. In queste ultime elezioni, su 650 seggi i Conservatori con il 44% dei voti ne hanno conquistati 365, i Laburisti 203 con il 32% e i Lib Dem 11 con l’11% dei voti. In più, dato il sistema particolare della Scozia, lo Scottish National Party ne ha conquistati 48 con solo il 4% dei voti. Nel nuovo Parlamento sono comunque rappresentati dieci partiti. La filosofia sottostante è che il partito sceglie il candidato e l’elettore sceglie tra i candidati proposti: chi è eletto non rappresenta solo i suoi diretti elettori, ma tutta la circoscrizione.



Malgrado molte analisi fuori dell’Uk si concentrino sulla Brexit, nell’esito del voto hanno giocato problemi interni, come la richiesta di stabilità e maggiore attenzione a risolvere i problemi, sociali ed economici, di buona parte della popolazione. Per molti cittadini britannici la Brexit è diventata solo una fonte di incertezza e instabilità, facendo loro apprezzare la netta posizione di Boris Johnson, anche al di là delle preferenze personali sulla questione. Inoltre, le previsioni di un collasso economico si sono per il momento dimostrate esagerate.  



Il Labour è uscito stravolto da queste elezioni, passando da 262 seggi nel 2017 agli attuali 203, con una perdita di 2,5 milioni di elettori, pari al 20%. Le critiche si concentrano sul leader Jeremy Corbin, accusato di essersi spinto troppo a sinistra e di non essersi sufficientemente opposto all’antisemitismo circolante in strati del partito e di cui lui stesso è stato accusato. In questione è soprattutto il tradizionale appoggio della sinistra ai movimenti palestinesi in funzione anti-israeliana. L’atteggiamento non lineare nei confronti della Brexit ha anch’esso senza dubbio contribuito alla  sconfitta, che è però in buona parte dovuta al fatto che molti elettori tradizionalmente laburisti hanno sentito il partito lontano dalle loro reali esigenze.



È poi da rilevare il completo insuccesso del Partito Brexit di Nigel Farage, che non ha conquistato nessun seggio. Il nuovo partito aveva stravinto alle recenti europee, conquistando un terzo dei voti degli elettori inglesi, in elezioni che avevano visto una forte affermazione dei Lib Dem e una cocente sconfitta dei Conservatori. Viene così confermato l’atteggiamento concreto dei britannici verso l’Ue, ben diverso da quello ideologico di molti cosiddetti europeisti sul Continente. La cosa più importante per loro è come regolare i rapporti con la Ue, che si sia dentro o fuori, e perciò si vota l’estremista Farage a Bruxelles per difendere gli interessi nazionali verso gli eurocrati, ma il pragmatico Johnson per governare effettivamente la Brexit.

Ora l’attenzione si concentra sulle trattative circa i rapporti tra Uk e Ue successivi all’uscita, sulle quali già si registrano “avvertimenti” da esponenti Ue. La schiacciante maggioranza nel Parlamento rende Boris Johnson più forte nelle trattative e ciò pone qualche problema a Bruxelles. Sia Angela Merkel che Emmanuel Macron si sono premurati di sottolineare che le trattative sugli accordi commerciali saranno molto dure e che non verrà consentito al Regno Unito di comportarsi come “un concorrente scorretto”.

Da rimarcare è l’atteggiamento di Johnson dopo la sua vittoria: ben lungi dal presentarsi come “asso pigliatutto”, Boris ha promesso ai già elettori laburisti che hanno votato per i Conservatori di far fronte alle loro richieste, prospettando per il futuro un Paese unito al di là delle divisioni di partito. In questa direzione, Johnson ha già messo in primo piano il problema della sostenibilità del Servizio sanitario nazionale, un tema caro ai Laburisti, promettendo ulteriori finanziamenti. Problemi di non facile soluzione sono quello della Scozia, con la richiesta del Snp di un nuovo referendum sull’indipendenza, cui Johnson è decisamente contrario, e dell’Irlanda del Nord, dove però possono dare un aiuto i buoni rapporti con il Primo ministro irlandese Leo Varadkar.

Johnson ha dichiarato di voler concludere le trattative sulle relazioni post Brexit entro il 2020, come previsto dai regolamenti, ma molti ritengono inevitabile un rinvio della scadenza. Anche per la Ue un rinvio potrebbe essere determinante, data la debolezza dell’attuale Commissione e di molti governi, compresi quelli dei due Stati guida: Germania e Francia. Non sarà una discussione facile, perché verranno al pettine tutti i nodi non sciolti da entrambe le parti.