Dopo lunghe ed estenuanti trattative e a poche settimane dall’effettiva entrata in vigore della Brexit, tra Regno Unito e Unione Europea è già scoppiato un caso diplomatico. Il governo inglese, infatti, si rifiuta di riconoscere il pieno status diplomatico al primo ambasciatore Ue a Londra, João Vale de Almeida, e al suo staff, a cui vorrebbe invece concedere uno statuto e un’immunità limitati, disattendendo così i dettami della Convenzione di Vienna del 1961 sulle relazioni diplomatiche. Bruxelles, ovviamente, considera la proposta “inaccettabile”. “Londra sta già cercando di sparigliare le carte” osserva Giuseppe Di Gaspare, ordinario di Diritto dell’economia all’Università Luiss di Roma. “Rifiutando di riconoscere lo status diplomatico di ambasciata alla rappresentanza Ue nel Regno Unito intende far saltare il fronte unito dell’Unione Europea e riaprire i giochi con i singoli Stati. Mi sembra però una mossa azzardata, sintomo di forte difficoltà del governo inglese”.



Perché il governo Johnson si comporta così?

Perché nella sostanza quello sulla Brexit è un accordo per evitare gli effetti devastanti, soprattutto per il Regno Unito, di un mancato accordo. Un deal sul no deal, verrebbe da dire.

In che senso?

Non è la chiusura dei negoziati, ma un accordo per l’inizio non traumatico di una negoziazione. Vorrei ricordare l’invito di Boris Johnson di qualche settimana fa a fare “scorte” di prodotti in vista del rischio dello spirare del termine transitorio di fine anno con un no deal. La reintroduzione dei controlli alla frontiera e l’uscita dall’unione doganale avrebbero determinato il caos della logistica, dei trasporti e il blocco delle merci alla frontiera. Forniture a singhiozzo, scaffali vuoti, accaparramenti e aumento dei prezzi soprattutto di generi di largo consumo in tutto il Regno Unito. Di che rovinare la festa per la Brexit anche per i suoi più accaniti sostenitori.



L’accordo su niente dazi alla frontiera ha dunque evitato tutto questo?

Sì, ma l’intesa è transitoria e destinata a essere sostituita da un accordo di “libero scambio” da negoziare nei dettagli, che è comunque diverso dal regime di “libera pratica” che si applica nel mercato unico europeo.

Come funziona l’immissione in libera pratica?

Attualmente attribuisce la posizione doganale di merce comunitaria a una merce non comunitaria entrata in un paese Ue. Questo vuol dire che può circolare liberamente in ogni Stato e tra ogni Stato dell’Ue indipendentemente da quale sia il paese di origine del prodotto, anche se di importazione da paesi terzi senza differenza in ragione del punto di frontiera da cui è transitato. Il regime di libera pratica comporta l’“unione doganale”, cioè che alla frontiera della Ue si applica ovunque la stessa tariffa doganale, ma implica anche che il prodotto immesso in libera pratica debba essere conforme alle stesse regole di sicurezza, di produzione e conformazione merceologica del prodotto stabilite dall’Ue.

Invece in un regime di “libero scambio”?

Solo i prodotti dei paesi che aderiscono all’accordo possono essere scambiati liberamente tra gli stessi e non quelli che transitano al loro interno provenienti da paesi terzi.

Questo cosa comporta in concreto?

Comporta necessariamente il controllo delle merci in transito alla frontiera per impedire che prodotti di paesi terzi possano essere camuffati come propri del paese aderente all’accordo di libero scambio, così che possano transitare senza pagare dazi e sottomettersi a controlli e verifiche sulla conformità alle regole merceologiche relative alle diverse tipologie di merce – sanitarie, sicurezza, standard di produzione… – applicate nel mercato in cui entrano. Sotteso, quindi, agli accordi di libero scambio c’è il problema sia dell’“origine del prodotto” sia della verifica delle regole di produzione.

La Ue aveva proposto di lasciare in vigore lo stesso sistema di regole in entrambi i mercati?

Esatto, per impedire che una regolazione più lasca consenta un indebito vantaggio competitivo. Il Regno Unito avrebbe dovuto applicare le regole vigenti nella Ue e accettare per le controversie commerciali la giurisdizione della Corte di giustizia di Lussemburgo.

Ma così non è stato. Perché?

Quando Johnson afferma che il Regno Unito ha recuperato la propria “sovranità legale” vuol dire proprio questo. Per evitare la concorrenza sleale si farà appello al principio di “equal field of competion” e in caso di contenzioso si ricorrerà ad arbitrati internazionali. Di fatto il compromesso porta gli scambi commerciali nel terreno scivoloso dei giudizi arbitrali privati.

Possibili conseguenze?

Sulla base di quel principio, anche i prodotti provenienti da paesi terzi ma marchiati Uk potrebbero entrare liberamente nel mercato Ue. La transizione al “libero scambio” comporterà, quindi, la necessità di negoziare criteri di massima per standard accettabili e per i singoli settori merceologici e le modalità di riconoscimento del paese di origine.

Impresa non semplice, non crede?

No, infatti. Soprattutto in presenza di merci le cui componenti possono provenire – o fasi di produzione essere dislocate – in qualsiasi parte del globo. Nel caso di prodotti ibridi, cioè la quasi totalità dei prodotti industriali oggi in circolazione, sarà controverso stabilire quando la componente prevalente del prodotto, benché marchiato come Made in UK o con il marchio CE, sia stata effettivamente realizzata e non, ad esempio, semplicemente assemblata in quel paese e fino a che punto l’omologazione british sarà sufficiente per evitare la concorrenza sleale. Finora il marchio CE, anche se non sempre affidabile, valendo comunque per tutti gli Stati membri eliminava alla radice ogni problema.

Non sarà più così?

C’è il rischio che l’accordo possa essere una specie di cavallo di Troia per l’ingresso nel mercato unico di merci provenienti da paesi terzi non in linea con gli standard comunitari.

Potremmo assistere a guerre commerciali e sugli standard anche per conto terzi?

Se le controversie si protrarranno, sarà possibile, secondo quanto già stabilito nell’accordo, rinegoziare, con facoltà nel frattempo della parte contraente che si ritiene lesa di adottare contromisure anche in altri comparti merceologici. Probabilmente non si arriverà a tanto, ma è facile prevedere defatiganti stop alla frontiera su questo o quel prodotto per controlli fitosanitari o di compatibilità ambientale o altro per verifiche sulle coperture assicurative degli autotrasportatori, come sembra stia già avvenendo. Prime avvisaglie, con aumento dei tempi e dei costi di trasporto e dei nostri prodotti alimentari, scoraggiando le importazioni e rendendoli comunque meno competitivi.

Per il momento cosa cambia?

Il Regno Unito ha guadagnato tempo per ridurre progressivamente la dipendenza dal mercato unico europeo e trovare altri canali di importazione e sbocchi commerciali, stringendo accordi di libero scambio come quello appena concluso con la Turchia.

Come valuta questa strategia?

La diversificazione dei canali commerciali è una strategia di riposizionamento. Modificare anche di poco regole e standard, là dove e come convenga e ci si ritenga in posizione di forza per farlo, permette poi di aprire un contenzioso commerciale che può avere un significato non solo economico, ma anche politico.

Che cosa intende dire?

Se la compattezza e il fronte unito tenuto dalla Ue nel corso della trattativa rimarrà tale, il contenzioso sarà scoraggiato e ridimensionato; altrimenti si rischiano estenuanti scaramucce commerciali su terreni scelti dal governo inglese con il rischio di isolate negoziazioni su specifici dossier affidate agli uffici della Commissione privi però di una chiara bussola politica.

C’è da aspettarsi da parte inglese una strategia basata su colpi asimmetrici nei confronti dei partner europei?

È possibile: prendere di mira questo piuttosto che quel prodotto nazionale al fine di dividere il fronte, mostratosi però finora unito a Bruxelles. Il confronto può essere artatamente enfatizzato – come mi sembra sia stato fatto per la pesca – anche per cercare contropartite nella negoziazione ancora aperta sui servizi finanziari.

L’Italia è annoverabile tra i paesi più esposti ai colpi asimmetrici, in quanto nell’interscambio commerciale sono i prodotti alimentari e agricoli, soggetti a controlli doganali e fitosanitari, a essere più facilmente oggetto di ritorsioni?

Ostacolare le importazioni di prodotti industriali in un sistema integrato della componentistica si può tramutare facilmente in un autogol per l’industria nazionale che li usa e che potrebbe rischiare il fermo produttivo. Nell’agroalimentare il rischio di autogol si corre meno. I prodotti sono deperibili e quindi l’export facilmente aggredibile con lungaggini burocratiche alla frontiera, ad esempio con moduli di complessa compilazione, con contestazioni sulla confezionatura dei prodotti…

Ci sono altri punti che meritano maggiore attenzione da parte dell’Italia?

La tutela dei lavoratori italiani nel Regno Unito. L’accordo sulla salvaguardia dello status dei residenti europei da più di 5 anni li tutela, ma fino a un certo punto. Cosa ne sarà nei fatti del principio di non discriminazione con i lavoratori nazionali e della parità di accesso alle prestazioni sociali, previdenziali e sanitarie? È un punto interrogativo. Così come quello della salvaguardia del posto di lavoro dei nostri connazionali nei settori meno qualificati a fronte di una più forte concorrenza al ribasso di lavoratori immigrati dal Terzo Mondo.

Che impatto potrebbe avere un declino del Regno Unito accentuato dall’irreversibilità della Brexit?

Non è certo un motivo di consolazione per noi. Anzi, potrebbe spingere quel governo a improvvisi colpi di coda. Sembra avverarsi la profezia dell’ex premier Major, che già nel 1992 nella vittoria di un eventuale referendum per l’uscita del Regno Unito dalla Ue vedeva l’alternativa tra “Great” e “Little” Britain.

Con Brexit gli inglesi sembrano aver optato per la seconda scelta?

Lo conferma l’esito nullo, se non controproducente, della visita in India dell’ex premier Theresa May, che ha bruscamente vanificato il sogno di una riattivazione, dopo Brexit, delle relazioni economiche privilegiate nell’ambito dell’ex Commonwealth. E di breve durata è anche l’illusione di fare quadrato nell’anglosfera: una modesta sponda nel Canada e un legame poco più che simbolico con le ex colonie Australia e Nuova Zelanda, a fronte invece della concorrenza di Wall Street alla City.

(Marco Tedesco)

(1 – continua)