Il trionfo Tory di Boris Johnson ha avvicinato lo storico picco elettorale di Margaret Thatcher nel 1987. Val la pena di annotarlo all’indomani di un voto che si preannuncia tellurico anche fuori delle isole britanniche: esattamente come l’ascesa della Lady di Ferro negli anni 80. Fu Thatcher – aprendo e indicando la strada agli Usa di Ronald Reagan – a chiudere un dopoguerra euroamericano forgiato dello statalismo egemone in politica economica. Fu il colpo di reni conservatore contro un laburismo decrepito a imporre privatizzazioni e liberalizzazioni come reazione e cura agli choc petroliferi e alle crisi irreversibili delle industrie e dei welfare pubblici nazionali. Fu una svolta brusca ma epocale: nell’orientare l’economia al mercato, nel rinnovare strutture e strumenti del government, nel rivoluzionare l’intera geopolitica (chi allora avrebbe lontanamente immaginato un’intesa negoziata fra Usa e Cina sui dazi commerciali?).



È nella City che, a metà degli anni 80 debutta la globalizzazione tecno-finanziaria. È a quel verbo che (lavorando alcuni anni a Londra) si è formato fra l’altro l’italiano più importante degli ultimi trent’anni: Mario Draghi, terzo presidente della Bce, pilastro reale della Ue di Maastricht. Regista perfetto e simbolico – Draghi – del tentativo di conciliare in via strutturale la civiltà anglosassone con quella dell’Europa continentale: con l’Italia degli anni 90 come significativo laboratorio. È stato d’altronde un premier britannico (il lib-lab Tony Blair) il protagonista dello sforzo più ambizioso e avanzato – anche se fallito – di condensare una cultura politica condivisibile in tutta la “nuova Europa” (a lui si è ispirato, fra gli altri, Matteo Renzi in Italia e al blairismo continua ad ammiccare, vent’anni dopo, anche Emmanuel Macron).   



La Britannia di “BoJo” conferma ora – a maggioranza schiacciante – il referendum di tre anni fa e si prepara a lasciare per davvero l’Europa di Maastricht (quaranta giorni dopo che Draghi ha lasciato la guida della Bce). Londra spezza una corda che proprio la Thatcher aveva cominciato a tendere: anche se è stata proprio la dialettica fra l’eterna “Compagnia delle Indie” al di là della Manica e lo storico ordoliberismo tecnocratico di Parigi-Berlino-Bruxelles a tenere in corsa  l’Europa nel nuovo Grande Gioco Globale. Almeno fino allo scoppio della crisi finanziaria del 2008: non prima, comunque, di aver fatto esordire (bene) l’euro.



Da allora, tuttavia, tanti fili si sono rotti e quello fra la Gran Bretagna e l’eurocrazia franco-tedesca si è rivelata una delle fratture più gravi (vedremo se ora si riannoderà una Relazione Speciale fra Johnson e l’America First di Donald Trump). Ed è l’Europa – anzitutto la Ue asserragliata nei palazzi di Bruxelles –  a incassare un’indubbia sconfitta. La Gran Bretagna ritrova infatti – attraverso un voto democratico – stabilità interna e forza negoziale esterna tagliando platealmente i ponti con un’eurocrazia ai minimi della sua credibilità, mentre la leadership di Angela Merkel è in declino avanzato e quella di Macron non riesce a decollare.

La stessa City di Londra saprà certamente far leva robusta sulla sua tradizionale flessibilità. Ha sempre osteggiato Brexit, sostenendo ogni tentativo di sovvertirla; e ha guardato con preoccupazione all’irruzione finale dello strong man Johnson al posto della debole Theresa May. Ma la sterzata pragmatica dei banchieri londinesi a favore del loro vecchio compagno di studi a Oxford è già stata visibile a spoglio ancora aperto. E mentre l’ex colonia Hong Kong precipita nelle classifiche degli hub tecno-finanziari globale, Londra – di cui Johnson è stato lord mayor –  si candida già a piattaforma offshore “4.0” (la regina Elisabetta, d’altronde, non ha giù superato per durata sul trono l’imperatrice Vittoria?).

 E l’Europa? E l’Italia? Sul Sussidiario è già stato notato che proprio Draghi sarebbe prezioso in questa fase: alla prima probabilmente più che alla seconda. Ricacciata sul continente da Brexit, l’Unione si mostra oggi come non mai esposta al serio rischio di rottura. Il Reno, fra Francia e Germania, in più di un’occasione sembra un nuovo muro. E Berlino, più che Parigi, si mostra ogni giorni più rigida nell’evidente – e comprensibile – incapacità di un merkelismo ormai obsoleto di affrontare una fase nuova. Prova ne è la chiusura sistematica alle sollecitazioni – peraltro politicamente malferme – che giungono da Macron su terreni come la svolta green in economia e un impegno strategico sul fronte della difesa comune. Ma cosa attendersi da una Ue la cui nuova presidente, Ursula von der Leyen, non ha potuto contare sul voto favorevole del suo stesso Paese ed è entrata in carica con un mese di ritardo? Una Ue in cui era candidata a un commissariato strategico una tecnocrate francese che è stata respinta al mittente e subito incriminata per sospetta corruzione?

Potrà apparire un’affermazione paradossale, ma a quest’Europa debole e lacerata manca l’Italia: il Paese fondatore che ospitò la firma del primo trattato, nel 1957. Italia, Francia, Germania, Ue sono tutti variamente corresponsabili di questa “crisi nella crisi”: del fatto che Roma non può contare sull’Europa ma neppure viceversa. È così che l’Italia sembra abbandonata a se stessa sulle vie di una “decrescita infelice”: in preda a convulsioni ri-nazionalizzatorie e neoassistenzialiste con sintomi di “peronismo europeo”; e a spinte sovraniste in politica. Ma è anche così che le piazze francesi sono sconvolte dalla collera dei gilet jaunes e quelle tedesche da cortei neonazisti non meno che dai trattori degli agricoltori. È così che il sistema bancario europeo è sempre più fragile: ovunque. È così che a Bruxelles continuano a concentrarsi sull’etichettatura dei formaggini, mentre le ondate migratorie continuano a premere – non solo sulle coste italiane – e il capitalismo di Stato cinese è il più ricco convitato di pietra ovunque vi sia un qualche pezzetto di Europa in vendita.

A quest’Italia-in-Europa, a quest’Europa-senza-Italia manca l’italiano d’Europa Draghi.