Manca poco allo scadere del nuovo anno e alla chiusura del transition period, il lasso di tempo in cui il divorzio consumatosi fra Unione Europea e Regno Unito avrebbe dovuto concretizzarsi nel raggiungimento di accordi bilaterali di buon vicinato, commerciali e non solo. E proprio in queste ore i colloqui sulla Brexit sembrano finire nuovamente in un vicolo cieco: Boris Johnson si dice pronto a lasciare il tavolo dei negoziati mentre definisce “oltraggiose” le richieste dell’Europa. Cosa accadrebbe se questa prospettiva si realizzasse? E, riprendendo dall’inizio il bandolo della matassa, quali sono i punti di divergenza che hanno portato i due interlocutori – complici i ritardi dovuti alla pandemia – nell’ennesima impasse proprio sullo scadere del tempo? Ne discutiamo punto per punto con Claudio Martinelli, professore di diritto pubblico comparato e diritto parlamentare all’Università di Milano-Bicocca ed esperto del sistema giuridico britannico.



Professore, facciamo il punto a partire dal Brexit Day.

Il 31 gennaio 2020 si è consumato il “divorzio”. La cosiddetta prima fase della Brexit, durata praticamente 4 anni, si è conclusa in questa data, quando il periodo che era stato concordato per i negoziati si è chiuso con la ratifica, avvenuta qualche giorno prima, da parte del Parlamento di Londra e del Parlamento europeo, del withdrawal agreement, un accordo di recesso stipulato nel mese di ottobre.



Poi cosa è successo?

Poi ci sono state varie vicissitudini, è stata anche sciolta la Camera dei Comuni, a Londra, perché il Parlamento britannico non voleva saperne di ratificare l’accordo stipulato da Boris Johnson, così come aveva rifiutato di ratificare l’accordo stipulato in precedenza da Theresa May. In seguito Boris Johnson è riuscito a far sciogliere le camere, ha vinto le elezioni e fra dicembre 2019 e gennaio 2020 ha fatto ratificare l’accordo dal Parlamento.

A quel punto cosa mancava?

A quel punto il termine che si erano date Uk e Ue per definire la questione, cioè il 31 gennaio 2020, è andato a buon fine e il cosiddetto divorzio si è consumato. Il giorno stesso è partito quello che negli accordi era definito “transition period“, il periodo di transizione che sarebbe dovuto durare per tutto il 2020, fino al 31 dicembre, per raggiungere, dopo aver ottenuto l’accordo sul divorzio, gli accordi di buon vicinato tra Regno Unito e Unione Europea. Possiamo chiamarla la fase due della Brexit.



Cosa prevedeva nel dettaglio questa fase?

Dei negoziati molto serrati, che già si prospettavano difficili. E naturalmente nessuno al 31 di gennaio poteva sapere che il 2020 sarebbe stato nel mondo l’anno del Covid. Questo ha rallentato i negoziati, specie in primavera, quando i due capi negoziatori sono stati coinvolti a diverso titolo: Barnier ha contratto il Covid, David Frost è stato in quarantena perché vicino a persone che si erano infettate, sta di fatto che la primavera è andata via inutilmente.

E così i negoziati sono ripresi in estate.

Ma in estate sono emerse tutte le difficoltà del caso ed effettivamente i veri negoziati, quelli della stretta finale, sono ripresi soltanto in autunno. Questa tempistica di per sé ha creato problemi, gli accordi prevedevano e prevedono che un eventuale accordo di buon vicinato venga ratificato dai due Parlamenti, quello europeo e quello di Westminster. Nei programmi iniziali si pensava che l’accordo dovesse essere raggiunto intorno alla metà di ottobre, così da dare ai due Parlamenti il tempo di esaminare e ratificare. Siccome però le due parti non hanno mai preso in considerazione di allungare il transition period, ecco che i tempi sono rimasti quelli che erano mentre i negoziati si sono protratti fino a questi giorni.

In questi giorni si svolgono i colloqui in un clima molto teso.

Anche se si raggiungerà un accordo, questo potrà essere visionato dai due Parlamenti in modo molto più rapido e forse più sommario di quanto s’immaginava.

Quali sono nel merito i punti di maggiore discussione?

Possiamo individuare tre aree. Una è quella del fishing, la pesca. Può sembrare una cosa curiosa che non si trovi un accordo, ma bisogna tenere presente un elemento che quasi sempre si trascura. Per capire le difficoltà di questo negoziato – non per giustificare ma per capire – dobbiamo entrare nell’ottica degli inglesi.

E cioè?

Qual era originariamente la base ideologica della Brexit, che ha portato una parte maggioritaria del popolo inglese a votare a favore? La chiave di lettura è una parola: “back“, indietro – far tornare indietro la sovranità. Prescindendo dal torto o dalla ragione (secondo me avevano torto e l’ho detto in tutti i modi), la loro idea era che aderendo all’Ue il Regno Unito aveva perso quote di sovranità nelle sue istituzioni, in particolare governo e parlamento, e che queste dovessero ritornare da Bruxelles a Londra.

E la pesca?

La pesca è acqua, coincide con la sovranità rispetto ai confini. Teniamo presente che parliamo di un’isola, la Gran Bretagna: per i popoli che abitano le isole la pesca è qualcosa di più di un settore industriale o merceologico. Pur rappresentando lo 0,1% del Pil britannico, il tema della pesca è diventato una specie di simbolo della Brexit: consentire ai Paesi membri dell’Ue di continuare a entrare e pescare nelle acque (peraltro molto pescose) del Mare del Nord e in particolare al nord della Scozia per i britannici non è solo un problema economico, è un problema di simbologia politica.

Qual è il secondo punto di divergenza tra Ue e Uk?

Secondo elemento altrettanto e anzi direi più importante sono le regole di libero scambio commerciale tra Uk da una parte e Unione Europea dall’altra, il cosiddetto level playing field.

Ci dica di più.

Per avere un accordo di libero scambio paritario è necessario che tutte le parti accettino le stesse regole e le rispettino. Il Regno Unito invece ha questa pretesa: vorrebbe godere dei vantaggi di far parte di un’area economica grande riservandosi al contempo di poter cambiare a proprio piacimento le regole che riguardano la propria parte.

In quali ambiti?

Penso in particolare alle regole sulla normativa ambientale e sanitaria, sul controllo dei prodotti, sul rispetto dei diritti dei lavoratori, etc. Uk non accetta di sottostare a regole scritte dall’Ue, ma l’Ue dal suo canto dice: il mercato unico è il mercato unico europeo, siamo noi che lo regoliamo, tu puoi godere dell’accordo di libero scambio come se facessi parte di questo mercato solo se rispetti le regole che questo mercato si dà.

A quale argomento si appoggia su questo punto il Regno Unito?

Uk dice: se non volete che ai vostri confini, al di là della Manica, ci sia un Paese che è fuori dal mercato unico e che può fare anche dumping commerciale, dovete accettare un accordo di libero scambio in cui voi vi fate le vostre regole e noi le nostre. Questa è una cosa un po’ complicata, una specie di quadratura del cerchio.

In questo quadro rientra anche l’idea di mettere fine al tax free?

Sì, in questo quadro rientra tutto ciò che ha che vedere con gli scambi commerciali. È dal primo gennaio del ’73 che Uk era nel mercato comune, prima, nell’Unione Europea poi. Ora succede che dal 31 gennaio 2020 il Paese esce e si sta cercando di trovare un accordo, ma cosa succede se non si trova l’accordo commerciale di buon vicinato? Succede qualcosa che travolge tutto quello che siamo abituati a pensare su Uk da quasi cinquant’anni.

Ovvero?

Questo Paese diventa un Paese qualsiasi del Wto, entrano in funzione le regole che governano la World Trade Organization. Regole che non sono di libero scambio, hanno molte più barriere. Tanto è vero che l’Ue ha stipulato per esempio un accordo con il Canada, il cosiddetto Ceta, ritenendo che le regole del Wto nel rapporto con una nazione come il Canada, che ha aspetti di omogeneità rispetto alla cultura economica europea, non fossero vantaggiose. Sarebbe paradossale avere regole più favorevoli col Canada che col Regno Unito.

Veniamo al terzo e quarto punto di divergenza fra Uk ed Ue.

Uno è strettamente legato a questo ed è la grande spina nel fianco dei negoziati: è il problema nord-irlandese, che era stato in qualche modo sistemato nell’accordo di “divorzio”, ma l’accordo di divorzio deve essere implementato nell’accordo di libero scambio, e qui le cose si sono mostrate più complicate. Era stata trovata una soluzione cervellotica, anche se era l’unica possibile, trasferire il confine dalla terra al mare, per non rimettere un confine che rinfocolasse tutte le problematiche legate alla guerra civile. Andando a implementare questa soluzione in un accordo di libero scambio sono venuti fuori molti problemi.

L’atteggiamento di Johnson ha contribuito a complicare le cose?

In questi mesi Boris Johnson ha pensato bene d’incidere sul negoziato attraverso lo spauracchio di una legge che ha presentato in Parlamento e che è tuttora in discussione in Parlamento, una legge che rimette in discussione persino l’accordo di divorzio relativo all’Irlanda del Nord.

Perché?

Secondo me l’ha fatto per avere un’arma di ricatto politico nel negoziato, però questo ha inciso molto, vedremo come andrà a finire.

E poi c’è l’ultimo punto di divergenza, qual è?

Quello relativo alla governance di un eventuale accordo. Mettiamo che si raggiunga l’accordo e l’accordo cominci a funzionare, a un certo punto si verifica un contrasto sulla sua interpretazione magari tra due soggetti, uno dell’Ue e uno del Regno Unito. L’Unione Europea dice che competente a governare giudiziariamente queste controversie deve essere la Corte di giustizia di Lussemburgo, Londra non lo accetta – ancora una volta, per il problema del “back“: il riprendersi la sovranità, anche rispetto al potere giudiziario – e vorrebbe che fossero coinvolte anche le Corti di Common Law britanniche.

Boris Johnson intanto minaccia di uscire dai colloqui sulla Brexit, ritenendo oltraggiose le richieste avanzate dall’Ue. Cosa implicherebbe rispetto al quadro che abbiamo delineato un netto “no deal”, un’uscita senza patti? È davvero uno scenario verosimile?

So che fa specie dirlo ma Boris Johnson è un grande negoziatore. La sua cifra politica è quella del giocatore di poker, come sempre, e di uno molto determinato a mettere sul tavolo la pistola.

E quindi?

Da quando è diventato primo ministro la sua più grande preoccupazione è stata avere la pistola sul tavolo, e ora questa pistola sul tavolo è la prospettiva del no deal. Johnson è l’unico primo ministro Tory della Brexit ad aver preso in seria considerazione l’ipotesi del no deal. È un’ipotesi per lui possibile, da non scartare a priori. E non svantaggiosa per il Regno Unito.

Non è un bluff?

Se sia o meno un bluff, come per tutti i giocatori di poker, lo si potrà sapere solo quando tutte le carte saranno sul tavolo. Ha fatto così anche l’altra volta, o almeno ha tentato di farlo, quando doveva negoziare l’accordo di divorzio: il Parlamento non gliel’ha consentito, lui ha dovuto ingoiare il rospo. Siccome ora, avendo vinto le elezioni di dicembre, col suo partito domina il Parlamento (anche se ci sono molti mal di pancia fra i conservatori), non ha problemi ad andare a Bruxelles e dire: quello che mi state chiedendo è oltraggioso, se non raggiungiamo l’accordo, io esco col no deal.

Come pensa che andrà a finire?

Io sono orientato a pensare che alla fine un accordo si potrà trovare. Per lui l’ipotesi del no deal era un’arma del negoziato, la sua pistola sul tavolo.

E che succede se alla fine la pistola spara davvero?

Succede esattamente quello che dicevo: di punto in bianco questo Paese, da Paese membro del mercato unico, diventa come un qualsiasi altro Paese del mondo con cui l’Ue non ha un accordo bilaterale commerciale. Questo nel breve periodo comporterebbe problemi pratici difficilmente gestibili, a cominciare dalla costruzione delle barriere doganali. O fai un accordo bilaterale per stabilire un periodo di transizione o c’è il no deal e allora, dal primo gennaio 2021, le barriere si alzano: inevitabilmente e improvvisamente. Ci sarebbero questi e mille altri problemi, che probabilmente nemmeno riusciamo a immaginare.

(Emanuela Giacca)