L’idea di un ingegnoso protagonista che crea un compagno artificiale per una varietà di motivi – gloria, svago o solitudine – ha origini antiche, ed è stata accolta dalla settima arte fin dall’inizio del ventesimo secolo, con pellicole come Il Golem o Frankenstein di James Whale. In questo caso la figura dell’automa assume delle tinte tragiche e oscure, ma film più recenti, specie nell’animazione, hanno saputo regalare storie più leggere destinate a un pubblico di bambini, come Big Hero 6 o Ron – Un amico fuori programma. C’è chi ha sviluppato questo spunto in modo tragico, chi in modo comico, chi in modo assolutamente bizzarro (Swiss Army Man, anche se lì non si trattava di un robot ma di un morto). E poi c’è Brian e Charles.



Brian (David Earl) è un tuttofare di uno sperduto villaggio inglese; mezzo eremita e mezzo inventore, Charles lotta contro la solitudine durante un rigido inverno, e decide di rimediare alla sua condizione costruendo un casereccio quanto strambo automa, Charles (Chris Hayward). Siamo nel campo della fantascienza, quindi, ma calata in un’ambientazione squisitamente britannica: il punto di forza del film è senza dubbio la fotografia, che ritrae smisurate distese verdi e cieli tumultuosi in inquadrature di rara bellezza.



Inglese è anche l’umorismo, sottile a tal punto da risultare praticamente trasparente. Si tratta di una scelta peculiare: un inventore un po’ asociale che tira su un robot a partire da una lavatrice sembra l’incipit perfetto per un film apprezzabile anche dai più piccoli, ma non è questo il caso. Brian e Charles è riflessivo, grigio, piovoso: l’azione è distesa, fatta di piccoli gesti; qualcuno direbbe che non succede niente. Insomma, l’esecuzione della premessa non è esattamente qualcosa che può entusiasmare un pubblico di bambini.

La cosa non sarebbe un problema se lo svolgimento della trama fosse in grado di catturare l’interesse dei più grandi. Sfortunatamente, l’intreccio risulta piatto e prevedibile, tanto che anticiparlo sarebbe superfluo: date le premesse, potete benissimo immaginare da voi come può finire una storia del genere. Il conflitto è superficiale, e potrebbe giusto andar bene per una storia di ragazzini, ma non per una che ha come protagonisti uomini grandi grossi e vaccinati. Ecco, è proprio questo il difetto primigenio della pellicola: lo scheletro della trama è quello di un film per bambini e con protagonisti bambini, ma su di esso si è innestato uno script che va avanti a suon di English humour e paesaggi malinconici. 



Di certo non è un film a cui si può volere male: è realizzato con cuore, in primis dagli attori, che regalano ottime interpretazioni a discapito di uno script privo di direzione; la regia di Jim Archer è una regia da mestierante, ma al giorno d’oggi non è cosa scontata; l’umorismo, che di certo non è per tutti, riesce comunque a riservare qualche gag dalla portata universale.

Nel campo della cinematografia si parla spesso di “libertà artistica”, e di come venga spesso stritolata da interferenze dei produttori e scelte dettate dal budget. Io non so quanto Jim Archer e la sua squadra siano stati liberi, nella realizzazione di questo progetto, ma sono certo che avrebbe giovato qualcuno che ponesse domande come “Per chi stiamo facendo questo film?” e “Qual è il nostro obiettivo?”. Ahimè non è successo, e il risultato è un film della Pixar senza tutti i pregi tipici di un film della Pixar.

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